È quasi emblematico che la Lega, alle prossime elezioni amministrative, punti sulla vittoria in Calabria. Quello che era il partito del Nord sembra aver “divorziato” dal suo territorio nativo, nonostante il presidio dei governatori di Lombardia, Veneto, Friuli, Fontana, Zaia e Fedriga (quest’ultimo indicato come possibile successore di Matteo Salvini).
Perché se il Carroccio guarda a Sud è anche alla luce dei sondaggi, magari sbagliati, che danno il centrodestra ko in tutti i principali Comuni al voto, con la sola eccezione di Trieste, e il sorpasso, a livello nazionale da parte di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Quest’ultimo movimento, che cresce soprattutto da Roma in giù, secondo l’ultima rilevazione dell’istituto Ipsos, a Milano otterrebbe gli stessi voti del Carroccio. Persino a Varese, culla di quella che è stata la Lega Nord, è in vantaggio l’aspirante primo cittadino del centrosinistra.
Certo, il movimento, sotto la guida di Salvini, ha vissuto una crescita esponenziale, passando dal 3 al quasi 40% in pochi anni. Ma nel frattempo ha sviluppato una serie di contraddizioni che ora sono arrivate al pettine e spiegano anche l’andamento ondivago della linea politica del segretario negli ultimi tempi sia nei confronti del governo Draghi (nella cui maggioranza è dovuto entrare obtorto collo) sia sull’obbligo, sempre più esteso del Green pass.
Chi ha buona memoria ricorderà le dichiarazioni sull’argomento del Capitano che è passato dal “no totale a qualsiasi imposizione” sul “certificato verde” al ridotto valtellinese del “tamponi gratuiti per tutti i lavoratori”. Questo dopo l’uscita pubblica, in un’intervista a un grande quotidiano nazionale, del numero due del Carroccio, il ministro Giancarlo Giorgetti che ha rotto l’impasse del governo sul tema, con l’affermazione della necessità di allargare l’obbligo del Green pass a tutti i lavoratori per garantire il funzionamento dei processi produttivi.
Una posizione da “vecchia Lega”, quella cancellata per statuto da Salvini, e che era, appunto, la forza politica di riferimento di gran parte dei ceti produttivi nel Nord, quelli che l’azione di Giorgetti e dei presidenti di Regione tentano di mantenere legati, nonostante, va detto, il segretario che invece va a caccia di consensi in altri lidi, tra cui quelli dei no vax e dei no pass, anche perché costretto a non perdere il passo di Giorgia Meloni, beata e solitaria oppositrice del governo.
La coperta però alla fine ha mostrato i suoi limiti di lunghezza. Uniti anche ai tipici problemi che investono le forze politiche in crescita vorticosa e finiscono per imbarcare un po’ tutti senza andare troppo per il sottile. Da qui è nata un’altra questione che investe il rapporto con l’Europa, da cui il Nord del Paese non può certo prescindere, ma che ha visto dentro il movimento l’affermazione di una linea no euro, perseguita soprattutto dai “nuovi” Bagnai e Borghi.
Le prossime elezioni amministrative perciò rappresentano il polso per la Lega che, anche sulla base dei risultati, dovrà decidere cosa fare da grande e se continuare a seguire o abbandonare quella corrente sovranista che, anche in altri Paesi, pare essere sempre meno dirompente. C’è che parla delle necessità di un congresso, come accadrebbe in un partito tradizionale percorso da forti contraddizioni interne sulla linea politica. Ma la Lega, in questo non è cambiata dai vecchi tempi, resta un movimento leninista, dove comanda solo il capo. Ai tempi di Bossi, i congressi servivano solo per caricare la base con proclami roboanti (secessione, devolution, federalismo, Padania a seconda dell’occasione) e per regolare i conti con l’esigua dissidenza interna.
Quel che accadrà dopo il voto di ottobre nel magmatico Carroccio, perciò, è difficile da prevedere. Ma qualcosa succederà. Di certo il nodo del rapporto con il Nord non può diventare scorsorio. Non conviene a nessuno.
© RIPRODUZIONE RISERVATA