E poi, a un certo punto, è esploso il fenomeno Lega e noi non ci eravamo accorti di nulla. Poi è esploso il fenomeno Berlusconi - dallo 0% al 30% in due mesi, altro che Salvini… - e noi non ci eravamo accorti di nulla. Poi è esploso il fenomeno Grillo e noi, fedeli alla causa, non ci eravamo accorti di nulla. Adesso ci è esploso in faccia il fenomeno Sardine e noi, bolsi, ottusi e caproni, tanto per cambiare non ci siamo accorti di nulla. E non è mica finita qui, perché nel frattempo, solo per stare agli ultimi anni, sono via via esplosi il fenomeno Trump, il fenomeno Brexit oltre alla questioncella del fenomeno terrorismo islamico. E noi, sempre noi, sempre e solo noi, non ci eravamo accorti di nulla.
Noi, noi dei media, noi dell’informazione, noi della comunicazione, noi della deontologia, noi dei simposi, noi della convegnistica, noi delle terrazze e dei saloni e delle presentazioni dei libri scritti dalla gente che piace alla gente che piace, noi delle marchette relazionali, noi delle vernici delle perdibili mostre d’arte ma degli imperdibili buffet dove si fa a cazzotti, a spintoni e a gomitate alla caccia del supplì, noi dei talk show ululanti e dei contenitori moralisti del mattino, del pomeriggio e della sera, noi fenomeni, noi Pulitzer di Voghera, della vita reale non capiamo mai sostanzialmente una mazza.
Perché noi siamo quelli del giorno dopo, quelli del se me lo dicevi prima, quelli che commentano benissimo e con grande dovizia di particolari e grandi analisi comparate e grandi sfoggi di cultura e di mestiere e di retorica del marciapiede che una volta sì che ci si consumava le suole a caccia di notizie, signora mia, non come adesso con questi smanettoni e questi algoritmi, noi che ti ricordi di quella volta quando si intervistavano Ugo Intini o Citto Maselli, siamo quelli che spiegano il giorno dopo quello che non sapevano il giorno prima. D’altronde, come fai se passi le giornate a pontificare alla macchinetta del caffè…
Perché questo è lo stato delle cose vigenti nel rutilante mondo dell’informazione autoreferenziale, altro che il cane da guardia della democrazia e altre facezie da tazebao sessantottardo. E allora forse è qui la radice di tutto il macello, il disastro, lo spargimento di sangue, la rivoluzione copernicana che sta devastando un mondo che fino a un decennio fa bolliva e brasava e frollava e stracuoceva nelle pieghe flaccide e opime del monopolio e che adesso - una volta venuto giù il muro di Berlino della rendita di posizione, e naturalmente pure stavolta non ci eravamo accorti di nulla - adesso è lì nudo, crudo e inerme a coprirsi le vergogne di un’arretratezza industriale, professionale e, soprattutto, culturale che sarà davvero un vasto programma recuperare prima che sia troppo tardi.
Questa è la riflessione più feconda che ci hanno regalato alcuni eventi che riguardano noi, il nostro giornale, il vostro giornale, leader territoriale nelle province di Como, Lecco e Sondrio. Nei giorni scorsi abbiamo organizzato la Festa delle imprese di Como, la Festa delle imprese di Lecco, la Festa del volontariato di Como per suggellare un anno di prodotti giornalistici - i settimanali economici “Imprese&lavoro” che escono ogni lunedì a Como e Lecco (ma presto anche a Sondrio), le riviste economiche “Imprese”, appena uscite a Como e Lecco e fra pochi giorni a Sondrio, il settimanale “Diogene”, dedicato al mondo del terzo settore, in edicola ogni martedì a Como. Ovviamente, non c’è nulla di celebrativo, che i tempi degli scambi di favore tra editori, inserzionisti e associazioni sono morti e sepolti per sempre.
La cosa importante è un’altra. Ed è strettamente connessa al principio da cui è partito questo ragionamento. Il successo straordinario - al limite del commovente per quanto riguarda “Diogene”, prodotto che sarebbe bello gemmare in futuro a Lecco e Sondrio - raccolto da tutte queste serate, che va di pari passo con la stima, l’autorevolezza e, soprattutto, i bilanci perfetti, addirittura floridi dei nostri tabloid, delle nostre riviste, dei nostri settimanali, in perfetta controtendenza con le difficoltà strutturali dei quotidiani generalisti in Italia e nel mondo.
Questo significa che quando le redazioni escono dalle redazioni, quando i giornalisti evadono dagli uffici, quando i professionisti si infilano mani e piedi e cuore e cervello nei territori, nei mondi, insomma, nelle comunità, allora raccolgono finalmente gli elementi, le dinamiche, le sensazioni, i contenuti che gli permettono di capire davvero il mondo reale, la vita vera, le strutture di lunga durata della società. E sono quindi in grado di raccontarla.
È questo il punto nodale, la questione dirimente del nostro mestiere, non tanto la crisi economica, la rivoluzione digitale o l’assenza di politiche governative. È questa la partita. Ma davvero crediamo che i giornali siano le loro redazioni, i loro luoghi fisici, i loro monoliti di rappresentanza? Davvero? Ma davvero riteniamo sia utile abbarbicarci alla nostra coperta di Linus, alle nostre certezze sperimentate, al nostro modello fordista, al nostro orizzonte impiegatizio? Ma davvero pensiamo che la nostra esistenza dipenda dalla sacralità del profilo sociale e non dalle capacità di analisi e comprensione della realtà? Siamo davvero così ingenui da illuderci che la difesa a oltranza del bidone, del più ottocentesco dei contratti ottocenteschi, della cultura dell’alibi, del è sempre colpa di qualcun altro - i poteri forti, le multinazionali, il padronato… - ci possa esimere dall’urgenza che tutto cambi perché tutto cambi?
Se il mondo dei media spesso e volentieri non capisce nulla del mondo reale significa che il problema non è fuori, ma dentro il mondo dei media.
Il problema siamo noi, non il babau, l’uomo nero o il gigante cattivo. Siamo noi il problema. Ma la soluzione è lì, alla “Provincia” l’abbiamo appena sperimentata. Fuori dalla redazioni c’è il mondo. E il futuro. Basta solo avere un po’ di coraggio.
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