Viene dall’artiglieria da montagna, il generale Francesco Paolo Figliuolo. Trattasi dunque di uno che spara bordate quando la strada si fa in salita.
Migliori credenziali non potrebbe vantare un uomo comandato a organizzare un’offensiva sanitaria proprio quando il Paese, alla prese con la terza ondata (o quarta, o quinta?) vacilla sotto i colpi di un nemico microscopico che non solo rifiuta di arrendersi, ma ogni poco si riorganizza, cambia, aggira le difese e, allarmandoci ogni giorno con i numeri del contagio, sparge scoramento tra i ranghi già provati dalla lunga battaglia.
Chi non ha fiducia in un generale degli Alpini? Sarebbe antistorico e antipatriottico. Coraggio, dunque: l’ora più buia è forse passata. Di sicuro è passato Domenico Francesco Arcuri: in pochi mesi passato, appunto, da grande speranza a “togliti dai piedi cretino”. Il governo lo ha “ringraziato per l’impegno e lo spirito di dedizione con cui ha svolto il compito a lui affidato”: nella Grande Storia dei Defenestramenti, queste parole hanno sempre preceduto un calcio in culo. Probabilmente anche il Padreterno le rivolse ad Adamo prima di cacciarlo dal paradiso terrestre: dopo di lui, ogni allenatore che il calcio ha mandato in campo è stato accompagnato sulla via dell’esonero esattamente dalla stessa formuletta.
Grande accoglienza, invece, per Figliuolo, acclamato a gran voce da tutta la coalizione governativa e perfino da chi ne è rimasto fuori, tanto da indurre qualche sospetto: un benvenuto così caloroso sembrerebbe calcolato per sottolineare ancor di più la sconfitta di Arcuri il quale, con tutti i suoi errori, è infine diventato il parafulmine di una politica che, a fine giornata, non ha altra preoccupazione se non quella di salvare se stessa.
Scaricato, insultato, spernacchiato, l’ormai ex commissario lascia la scena amministrandoci, non un vaccino (quello non gli è mai riuscito), ma un ammonimento, probabilmente involontario: via io, via anche l’ultimo alibi, l’ultimo capro espiatorio, l’ultimo Charlot da prendere a torte in faccia alla fiera dei social.
Al governo niente più “Giuseppi” ma Draghi, al commissariato niente più l’ondeggiante manager d’azienda ma il generale di Corpo d’Armata: se questi falliscono non c’è più speranza. Anzi, Speranza ci sarà ancora, probabilmente, ma non è che si possa farne gran conto.
Intanto, pare che per quanto riguarda le vaccinazioni la “cabina di regia” (espressione che di solito allude a un bel pranzo a base di aria fritta) passi a Palazzo Chigi e la somministrazione di massa, programmata per aprile, venga affidata a una sinergia (altro termine da considerare con sospetto) tra il neocommissario, la Difesa e la Protezione civile, pure dotata, quest’ultima, di una guida tutta nuova, l’ingegner Fabrizio Curcio: uomini nuovi, tosti, con i cingolati al posto delle gambe, e poi Difesa e Protezione civile schierate a far muro. Dubbi linguistici a parte, ci sono tutte le premesse – e le promesse - per una svolta in favore dell’efficienza, della prontezza d’intervento, della disciplina e anche - ma sì, tiriamo fuori qualche vecchio arnese retorico - dell’onore. Al momento, però, il beneficio è soprattutto psicologico, una specie di effetto placebo: i problemi, a guardarli, sono ancora tutti lì, ma chi è chiamato a risolverli già sgambetta a bordo campo, come Altafini quando entrava nella ripresa e ti risolveva la partita.
Se i problemi restano, mancano le scuse: quelle della politica, per esempio, che per un po’ non potrà scaricare Draghi senza rinnegare se stessa, e in fondo anche quelle di tutti noi, perché se neanche un generale degli Alpini riuscirà a metterci in riga quel tanto che basta per procedere con speditezza a un’operazione sempre più essenziale, e non solo per la salute, allora ti saluto. Al prossimo giro tanto varrà richiamare in servizio il comandante Schettino e puntare dritti sull’Isola del Giglio.
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