Forse non ce lo ricordiamo più, perché da oltre un anno siamo impegnati a misurarci la febbre e a discutere di AstraZeneca millesimato e di Pfizer stagionato alle erbe, ma là fuori c’è un mondo che ha un sacco di problemi perfino senza e oltre il Covid.
Anche qui ce ne sono di problemi, per carità, e tanti, ma misurando la realtà su ampia scala dobbiamo ancora dirci fortunati di abitare in un quartiere decente della città globale. Le immagini e le storie arrivate dalla Spagna ci hanno rammentato di colpo la tragedia dei flussi migratori e il criminale cinismo con il quale il fenomeno viene impiegato in politica.
Dei migranti si parla tanto perché i loro movimenti comportano effetti a breve e lungo termine sulle identità nazionali - per come vengono percepite oggi e per come potranno cambiare domani -, sull’economia nonché nella cultura e nella fibra stessa di ogni comunità umana. Se ne parla perché spostandosi da una nazione all’altra, da un continente all’altro, i migranti attraversano invisibili ma potenti linee di demarcazione geopolitica, mettendo a rischio equilibri, ingarbugliando rapporti diplomatici, incoraggiando approfittatori e costruendo pericolose fortune politiche. Conseguenze simili alla caduta delle tessere del domino che allontanano via via l’attenzione dal cuore del fenomeno: l’impossibilità, per milioni di persone, di vivere decentemente nel luogo in cui sono nate.
Il problema si coglie in tutta la sua semplice e drammatica natura quando lo si priva delle ripercussioni diplomatiche e politiche, per non dire elettorali, sulle quali sempre tendiamo a concentrarci. In un rapporto dell’Internal Displacement Monitoring Centre e del Norwegian Refugee Council, si legge che, nel 2020, circa 26 milioni di persone hanno abbandonato le loro case per cercare rifugio all’estero, mentre un numero ben più alto, 40,5 milioni, pur senza lasciare il proprio Paese ha abbandonato tutto per sfuggire a disastri naturali e conflitti.
Si obietterà che il migrante che non lascia il suo Paese non è tecnicamente un migrante. Giusto: è uno sfollato. C’è da credere però che questo cambio di “status” non sia di grande consolazione per chi si ritrova da un giorno all’altro in mezzo a una strada. Si farà poi osservare che i movimenti interni riguardano solo i Paesi in cui accadono: che quella gente si sposti quanto le pare nei confini di appartenenza e lasci in pace noialtri. Non è proprio un punto di vista saggio, perché le ragioni che determinano quei flussi sono da cercarsi soprattutto nelle catastrofi naturali, legate in primo luogo ai cambiamenti climatici.
Il fatto che nel 2020 si sia registrato il più alto volume di sfollati in assoluto, un numero “senza precedenti” si dice nel rapporto, sta a indicare che queste emergenze si stanno moltiplicando e che il problema se al momento non è di tutti presto lo sarà. Quando poi gli spostamenti sono conseguenza di guerre e guerriglie, i legami con il “nostro” mondo sono ancora più evidenti, perché ogni schermaglia locale appartiene in realtà a una grande rete alla quale nessuno è estraneo, intessuta di elementi economici, politici e religiosi ormai inestricabili.
Ma anche qualora riuscissimo a sgravarci di ogni indiretta responsabilità circa la sorte degli sfollati, finisce per essere inevitabile una riflessione su un mondo nel quale, a fronte del miglioramento delle condizioni di vita portato in tanti angoli del pianeta dalla controversissima globalizzazione, ancora non si riesce a garantire a milioni di persone un tetto e una sorgente di acqua pura. E, anzi, sempre più si isola e si rifiuta questa fetta di umanità, vittima, tra l’altro, di catastrofi che non ha certo provocato e che, anzi, deve in qualche caso proprio al procedere trionfale della suddetta globalizzazione.
Come diceva il poeta? “Nessun uomo è un’isola”. E coi tempi che corrono non gli converrebbe neppure: potrebbe ritrovarsi sommerso dall’oceano senza neppure il tempo di piantare un ombrellone in spiaggia.
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