Chi è andato al liceo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta si è trovato in una situazione singolare.
Di fatto, lui (o lei) era figlio di una nuova generazione, quella post ideologica, quella del riflusso, quella della Milano da bere, ma a scuola gli capitava di imbattersi in professori della generazione precedente, quelli che avevano fatto il Sessantotto, e magari pure il Settantasette, e che erano imbevuti di quella cultura che aveva rivoluzionato - e devastato - il mondo scolastico e universitario.
In particolare, ogni tanto entravano in classe certi supplenti precari a vita in attesa della sanatoria che li immettesse in ruolo per decreto, certi figuri, certi soggetti, certi personaggi tutti stropicciati, pulciosi, cisposi e forforosi che iniziavano a blaterare su dai ragazzi, abbasso le gerarchie, datemi pure del tu, qui siamo sullo stesso piano e aboliamo assieme il fascista voto di condotta e quanto è bello condividere e darsi una pacca sulle spalle, sono un vostro amico, anzi, un vostro confidente e ora vi racconto dell’eroica lotta dei contadini boliviani e le gesta del Comandante Che Guevara e del compagno Fidel e degli Inti Illimani e, forza, intoniamo una bella canzone partigiana e l’Agnese va a morire e dagli ai poteri forti, dagli alle multinazionali, dagli al regime democristiano e ora e sempre resistenza e bla bla bla.
Il problema era che, alla fine del comizio del rivoluzionario forforoso di cui sopra, per alcuni secondi la classe rimaneva immersa in un silenzio assoluto, un silenzio profondissimo, un silenzio di neve. Poi, all’improvviso, a partire dall’ultima fila per poi propagarsi fino alla cattedra, si scatenava una risata mostruosa, una risata belluina, una risata omerica che costringeva il malcapitato movimentista terzomondista a battersela in presidenza inseguito dagli ululati, le pernacchie, le lingue di Menelicche e da una salva di torsoli di mela, gessetti, cancellini e smozzichi di focaccia rancida. Fine ingloriosa del tentativo di abolire de facto il voto di condotta, tornato d’attualità dopo la riforma del ministro Valditara che prevede la bocciatura con il cinque in condotta.
Ma se lì era come trovarsi in un film di Nanni Moretti e quindi nel fallimento del ridicolo lassismo pseudo sociologico degli intellettualonzoli di sinistra, che ha partorito l’azzeramento dell’autorevolezza del corpo docente, con la generazione precedente sembrava invece di essere in un film di Fellini. Nessuno ha saputo immortalare con così assoluta perfezione la struttura iper gerarchica, iper autoritaria e iper trombonesca della scuola dei nostri padri come il regista in “Amarcord”, che nelle sequenze dedicate alle lezioni al liceo classico di Rimini (così come in quelle sulla parata fascista) raggiunge una delle vette del cinema di sempre. A rivederle ti sbellichi dalle risa. Vecchi barbogi intabarrati che declamano sul Demiurgo, docenti ubriacone che catoneggiano sulla prospettiva di Giotto, scalzacani dal fortissimo accento meridionale alle prese con la fisica del pendolo, pettorute prof di matematica che vessano il somaro della classe, macchiette tabagiste con il riporto che elogiano la musicalità e il risquitto della lingua greca. Tutti personaggi da circo, inamidati, retrogradi e conformisti, espressioni plastiche di quel “fascismo eterno” provinciale, straccione e bacchettone che è una delle linee rosse (o meglio, nere) dell’antropologia culturale di questo povero paese.
E benché lì il voto di condotta decidesse la vita o la morte degli studenti, questi comunque, alla faccia del preside orco, passavano le mattinate a prendere per i fondelli i loro ridicolissimi professori. Proprio come quelli di mezzo secolo dopo. Fine ingloriosa del cinque in condotta come formidabile deterrente.
Poi però, negli anni Trenta come negli anni Ottanta come negli anni Duemila, un giorno arriva in classe un professore né autoritario né rivoluzionario, un tipo normale, normalissimo, ai limiti del banale, che magari ti racconta di quel ragazzo che soffre mentre lei dorme senza pensare a nulla e senza avere la minima idea della ferita che gli ha aperto nel petto e che forse in sogno si ricorda a quanti è piaciuta in quel giorno di festa e quanti sono piaciuti a lei. Non lui, certo, non che lui speri, mentre vede la tanto attesa domenica svanire in un lampo senza che nulla sia successo e mentre gli si stringe il cuore sentendo una voce che si allontana fuori dalla finestra.
E sapete che c’è? In classe non vola una mosca. Perché gli studenti hanno capito che non si parla di quel ragazzo nella Recanati dell’Ottocento, ma che si parla di loro. Anzi, quel ragazzo “sono” loro, che stanno già iniziando a provare tutti i dolori delle illusioni perdute, dell’amore non corrisposto, della solitudine e del tempo che se ne va. E non ride nessuno. E non volano cancellini. Tutti dieci in condotta. Chissà perché?
E poi magari quello stesso prof gli racconta di quell’altro ragazzino che ammira, ma anche invidia, il suo amico biondo e con gli occhi azzurri e la sua fidanzata bionda e con gli occhi azzurri perché lui invece è bruno e diverso e disperato. Loro perfetti, lui fallato. E anche in questo caso non si parla di un adolescente nella Lubecca di inizio Novecento, ma ancora di loro. Perché loro, in quanto adolescenti, si sentono sbagliati, malinconici ed esclusi. E loro, in fondo, sono anche quel guerriero che sfida l’eroe immortale (che invece non lo è) sapendo di morire davanti agli occhi della moglie, del figlio e del padre e di venire trascinato nella polvere da un carro sotto le mura della fortezza, anche se è una storia di tremila anni prima, e sono anche quel tale che un giorno si sveglia trasformato in un insetto perché l’adolescente è così che si vede - diverso, respinto, mostruoso, alienato - e cento altre storie ancora.
Ecco, quando capitano questi professori - non i pagliacci della rivoluzione proletaria né i tromboni di una volta sì che c’era il rispetto, caro lei - allora non serve altro. Voto in condotta cosa?
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