I problemi cominciano quando pensiamo che uno, visto che è bravo a fare una cosa, allora deve essere per forza bravo a farle tutte.
Nei giorni scorsi hanno fatto scalpore le dure critiche al Green pass da parte di Alessandro Barbero, noto storico medievista, autore di alcuni saggi e romanzi di grande successo e, soprattutto, strepitoso divulgatore culturale, capace di radunare folle da concerto rock alle sue lezioni sulla storia della cavalleria o sulla battaglia di Lepanto. In verità, la strada gli era stata aperta nelle settimane precedenti da due pesi massimi della filosofia come Massimo Cacciari e Giorgio Agamben, anche loro molto vezzeggiati dai media, ma è con Barbero che la polemica ha fatto davvero il botto.
Ora, il punto non è tanto questo, ma il fatto che - soprattutto dopo aver letto le argomentazioni dell’accademico piemontese, molto meno efficaci delle sue ricostruzioni dell’epoca di Carlo Magno e di Bonifacio VIII – sempre più spesso il Professore, l’Esperto, il Sapiente, il Competente faccia fatica a riproporre il suo schema, vincente e spettacolare sul suo campo di gioco, in un campo di gioco diverso e opposto. E cioè, quanto sia fallace pensare che le chiavi che l’esperto usa per aprire e chiudere la serratura del nostro cervello, e del nostro cuore, in quel mondo nel quale è maestro e padrone siano le stesse che servirebbero per aprire il portone della conoscenza in altre materie che non sono le sue. E a leggere quelle tesi fragilissime, e anche un po’ corporative, il sospetto che Barbero del Green pass non ci abbia capito - con tutto il rispetto - una mazza diventa sempre più inquietante.
Quanto sarebbe importante comprendere l’importanza delle separazioni delle carriere, non solo nella pericolante giustizia italiana, ma in tutto il resto dello scibile umano: si può essere un valente divulgatore e un pessimo firmatario di appelli, si può essere un filosofo di grande acutezza e un epidemiologo da osteria, si può essere un geniale regista e un incorreggibile ludopatico o un assatanato molestatore o un bieco razzista. Sono cose che possono benissimo convivere nella stessa persona e che, quindi, tocca a noi dividere con nettezza. E invece questa è una separazione che nessuno sembra essere più disposto ad accettare, anche perché, chissà per quale misterioso motivo, riteniamo che l’uomo di cultura in generale, e il professore universitario in particolare, sia meglio degli altri in sé, a prescindere, a priori, sia migliore degli altri in senso assoluto e, quindi, sia autorizzato a parlare su tutto, a discettare su tutto, a dare la linea su tutto. Coprendosi spesso e volentieri di ridicolo. Basti ripensare alla pletora di appelli che si sono susseguiti nel Novecento e alle innumerevoli firme di autorevolissimi maestri di pensiero che li supportavano e quali e quante idiozie e mascalzonate questi autorevolissimi maestri di pensiero hanno appoggiato, vaticinato e benedetto, che se uno ricorda il giuramento dei docenti universitari al fascismo o l’appello contro il commissario Calabresi e legge i nomi dei firmatari rabbrividisce al solo pensiero del sostantivo “intellettuale”.
Quanti professoroni abbiamo visto andare in Parlamento per elevare il livello etico e culturale di quella masnada di buzzurri, analfabeti e traffichini per poi affondare nel pantano oppure - peggio - iniziare a sgomitare per qualche incarico di potere generalmente ben remunerato o - peggio ancora - farsi possedere dal virus del narcisismo, dell’egocentrismo, del presenzialismo? Quante banalità abbiamo sentito dire da luminari di fisica quantistica sulla riforma costituzionale o da coltissimi geopolitici sull’innamoramento e l’amore o da ordinari di storia dell’arte sul modulo di gioco della Grande Inter o da primari di virologia sui fasti del Sessantotto? Un livello di incompetenza che neanche al bar della Pesa. Ma ce le ricordiamo le dichiarazioni di Borges - uno dei geni assoluti della letteratura del Novecento, mica Missiroli o la Ciabatti - sui colonnelli argentini? Una roba da farlo portare via con l’ambulanza, assieme ai suoi specchi e ai suoi labirinti. E il premio Nobel Dulbecco che fa il valletto al Festival di Sanremo? Ci sarebbero esempi a decine, a centinaia, di gente qualificatissima che la fa fuori dal vaso, che parla di cose che non conosce, che pensa incredibilmente di essere un genio onnivoro alla Leonardo tra i fasti del Rinascimento fiorentino senza rendersi conto che invece deve tirare a campare nella fanghiglia di una società postmoderna, sbriciolata e massificata.
Il vero pasticcio è che noi del rutilante mondo dei media - mai una volta che azzeccassimo una scelta - abbiamo deciso di affidargli il ruolo di guide morali e spirituali della nazione e di farli andare ben al di là del loro ambito e del loro compito specifico e, quindi, di tirar fuori dall’esperto il personaggio, il personaggio a tutto tondo, il personaggio istrionico, il personaggio visionario e profetico, il personaggio capace di stare, alla grande, in televisione, sui giornali e sui social. Insomma, un personaggio da copertina. Ma attenzione. Si scrive personaggio, si legge macchietta. Perché è questo che succede. I professori non hanno colto questa basilare, per quanto semplicissima, verità dei tempi nostri. Appena metti un intellettuale davanti a una telecamera, nel giro di due ore diventa inesorabilmente un pagliaccio, e inizia a parlare e a straparlare e a darsi un tono e a fare i capricci con i suoi tic e i suoi birignao tutti rubizzi e sgarziglioni e, sempre lui, viene via via sedotto e stregato e soggiogato e dalla malìa demoniaca della vanità e si dimostra così esattamente il contrario di quello che crede di essere e, invece, esattamente uguale a tutti noi popolo bue che blateriamo di cose che non conosciamo il sabato sera in fiaschetteria. Perché in fondo, anche l’intellettuale è petulante e vanesio esattamente come tutti gli altri. Ofelè fa el to mesté, altro che Green pass.
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