Se non ci fosse di mezzo la salute delle persone, ci sarebbe da ridere di fronte a un’istituzione pubblica importante come l’Ats (l’ex Asl) che si ricorda di chiamare le persone da sottoporre a tampone perché ha letto sul giornale la denuncia di quelle stesse persone: “si sono dimenticati di noi”. Ma qui abbiamo a che fare con la peggiore pandemia dell’era moderna, che solo in Lombardia ha ucciso (ufficialmente, sulla base dei pochi tamponi fatti) oltre 15mila persone. E di conseguenza non si ha proprio voglia di ridere di fronte alla gestione dilettantesca dei test per scovare chi è positivo al virus. Una cosa va chiarita: è davvero utile effettuare questi screening. In Corea, nel 2015, c’è stata un’epidemia di Mers, altro coronavirus infinitamente più letale del Covid. Epidemia che fu tenuta sotto controllo proprio grazie alla campagna di tamponi che ha permesso di scoprire i positivi, i loro contatti e isolare tutti quanti. E così, quando è arrivata la nuova pandemia, hanno replicato quanto fatto 5 anni prima. Risultato? 260 morti (la metà che a Como) e 11mila contagiati.
Senza andare così lontano, il Veneto - dove si è registrato uno dei primi focolai da Covid in Italia, dopo quello di Codogno - ha eseguito (percentualmente) più del doppio dei tamponi della Lombardia (in proporzione una delle regioni messe peggio in Italia su questo fronte). Risultato: ha avuto un decimo dei morti lombardi e un quarto dei contagi ufficiali registrati da queste parti. Di fronte ai due esempi - nonché alle parole (pubblicate anche su questo giornale nei giorni scorsi, intervistato dall’ottimo Isaia Invernizzi) del dottor Crisanti, virologo veneto che ha messo a punto il piano di prevenzione che ha salvato la regione amministrata da Zaia, la risposta sembra scontata: sì, i tamponi servono eccome. Perché consentono di bloccare il virus. E salvare vite.
Fatta la premessa, raccontiamo una storia. Nei giorni scorsi abbiamo raccolto lo sfogo di una figlia, il cui papà (poi morto per il maledetto virus) era stato dimesso dall’ospedale nonostante, si scoprirà poco dopo, fosse stato contagiato. L’ospedale in questione, il Sant’Anna, in realtà aveva correttamente fatto tutto ciò che i protocolli prevedono di fare in questi casi: tac polmonare, saturazione, controllo della febbre. E, infine, correttamente (sulla base di questi dati diagnostici) concluso che no, il paziente non aveva il Covid. In realtà da tutti questi accertamenti, ne mancava uno: il tampone. Ma la colpa non è dell’ospedale, quanto dei protocolli che non prevedono lo screening preventivo su tutti i pazienti.
Il dottor Crisanti ebbe a dire: è inutile fare il tampone a chi ha tutti i sintomi da Covid, è a chi non presenta sintomi che va fatto. Ma tant’è.
In questo contesto regionale desolante, il nostro territorio si piazza in fondo alla classifica di quel lavoro di prevenzione completamente assente a queste latitudini. L’Ats Insubria - entità completamente silente, a cui fin dall’inizio abbiamo invano chiesto di potervi fornire dati ufficiali divisi per comune sui contagi e sui decessi, e che non è neppure in grado di fornire pubblicamente numeri precisi sulla strage nelle Rsa, come se fosse un dato segreto e riservato anziché riguardare tutti noi - tra Como e Varese ha eseguito tamponi soltanto sul 2% della popolazione, quasi la metà della media regionale. Ora che sono partiti i test sierologici, sapete quanti ne sono stati fatti dall’Ats Insubria sul totale delle 19mila persone in quarantena fiduciaria controllate in tutta la regione? 491. Il 2% appena di tutti quelli fatti in Lombardia. Ci sarebbe da ridere. Ma da più di due mesi è scappata la voglia di farlo.
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