Il caffè vista lago, pur doppio e affiancato dalla mezza bottiglietta di minerale a 12 euro è il dito. La luna è una politica turistica per Como. Il caso del maxi conto per le consumazioni nel locale di fronte al cantiere delle paratie (presenza che, alla luce del problema materie prime, rischia di prolungarsi) è stato un bel ballon de essai che si è però sgonfiato dopo qualche giorno di passeggiata sulla ribalta.
Resta, irrisolto, il nodo di una città che permane “turistica per caso” senza che mai siano state messe in campo politiche per gestire un fenomeno ormai radicato, ma cresciuto in maniera del tutto spontaneo nella convalle che si specchia dentro il lago più bello del mondo. Già il fatto che questa cosa ce l’abbiano tirata fuori gli altri, la dice lunga sul rapporto tra i comaschi e il turismo. Eppure basta alzare un po’ il naso durante una passeggiata lungo viale Geno o verso Villa Olmo, al netto del semprterno cantiere delizia degli umarell, per rimanere a bocca spalancata di fronte a tanta bellezza, magari da tenere un po’ meglio, vedi alla voce giardini a lago ancora in attesa di un futuro più dignitoso del presente.
Il nostro turismo, lo sappiamo, è molto mordi e fugge. Una risacca che si irradia per lo più da Milano e porta gli stranieri ora di ritorno nel post pandemia, a soggiornare per qualche tempo anche dalle queste parti. Poi ci sono le masse del weekend, per lo più in versione gita fuori porta: un caffè o un gelato davanti alle attuali secche del Lario e poi via che lunedì c’è da lavorare.
Chi è uso a frequentare queste colonne ricorderà i riferimenti agli anni ’80, quando il problema era quello di come attrezzare la città per il turismo. Perché se il capoluogo lombardo era “da bere”, da queste parti dopo le 19 era pressoché impossibile incappare in un bar aperto, anche se disposti a spendere i fatidici 12 euro, all’epoca quasi 24mila lire, una cifra astronomica con cui ti garantivi un pasto completo per due e al caffè potevi tranquillamente unire ciò che l’avrebbe ammazzato. Da lì l’abbrivio per un dibattito avviato con pensose dissertazioni su quale tipo di turismo potesse essere quello ideale, possibilmente alto, magari congressuale, sempre di risulta da Milano intesa però solo come capitale economica, e degenerato in proposte tipo quella di avvalersi di consulenti della Rivera Romagnola, dove il diporto non è certo quello preteso da queste parti perché e come se la piadina fosse compatibile con l’agone.
Il risultato è che mentre si parlava a vanvera senza il minimo agire, la città si trasformava, ma in maniera entropica, senza una programmazione che non fosse quella di piccolo cabotaggio a rimorchio delle politiche nazionali. Poi arrivò il detonatore Clooney e niente fu come prima. Nel frattempo però tanto era stato fatto e qualcosa ancora lo sarebbe stato sempre a ruota libera. Il risultato è noto: un turismo che produce un Pil molto al di sotto della massa di persone che muove, un fianco a fianco tra il Vip del cinema a Villa d’Este e lo smutandato che si rinfresca nel primo bacino davanti al Tempio Voltiano, le tante case del centro diventate bed&breakfast o alloggi vacanza, processo a soffietto, in parte ridimensionatesi dopo l’avvento del Covid, ma pronto a ripartire se, come pare, il virus ormai non fa più paura. Quell’effetto Venezia in sedicesimo, che manca solo quello che salta su a dire che “Como è bella, ma non ci vivrei”. Ecco, sarebbe bello se il tema del turismo, pur con la consapevolezza che le competenze vanno ben oltre quelle del Comune, piombasse a bomba sulla campagna elettorale e magari mettesse da parte quello sulla Ticosa che tanto resterà parcheggio (se va bene) ancora per parecchie amministrazioni. Perché poi, la faccenda, non è affatto svincolata da quella sul destino di aree strategiche. Basterebbe pronunciare le parole “San” e “Martino” per far fischiare più di un orecchio, ma anche “viabilità” e “stadio Sinigaglia”. Insomma di carne ce ne sarebbe. La parola ora ai fuochisti, se a loro pare.
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