Comunque la si pensi dal punto di vista politico, Giorgia Meloni merita un po’ di solidarietà umana. Non avesse già abbastanza problemi con la realtà di un Paese in perenne difficoltà, si ritrova un governo che è una sorta di maionese impazzita, dove, un giorno sì e l’altro pure, scoppia una grana provocata da alleati o ministri.
Nel secondo caso un po’ di responsabilità ce l’ha anche il premier, perché la squadra l’ha scelta in gran parte lei. A sua discolpa bisogna dire che il destracentro non è proprio una fucina di campioni della politica com’era la cantera del Barcellona per il calcio e quindi bisogna mandare in campo quello che c’è. Ma da qui al Bagaglino un po’ ce ne dovrebbe passare.
L’ultimo a farla molto fuori dal vaso dopo il ministro dell’istruzione Valditara, quello della Cultura, Sangiuliano, il duo Delmastro-Donzelli e l’implacabile fido alleato Silvio Berlusconi, peraltro, non è una creatura meloniana, ma un ministro in quota Lega di Salvini.
Se il bel tacer non fu mai scritto, infatti, anche sul bel parlare si potrebbe dire qualcosa. E quello di Matteo Piantedosi, titolare dell’Interno, dopo l’orribile strage di migranti nel mare della Calabria è stato un pessimo eloquio. Al di là della mancanza di umanità, traspare anche quella di buon senso e della preparazione necessaria per stare nel posto che occupa. Come si fa, infatti a dire quelle cose sulle presunte responsabilità di chi è fuggito dalla guerra e della disperazione, da contesti sociali che non lasciano alternative. Cose che sanno anche i bambini delle elementari che perlomeno non hanno velleità di occupare il Viminale. Ma il ministro dell’Interno, anziché scusarsi per una sciocchezza da bar che in fondo può anche capitare, poi ha messo il proverbiale “tacon peggio del buso” con le interviste successive in cui ha tentato di spiegare e rettificare il suo pensiero. Memorabile il consiglio di non affidarsi a scafisti senza scrupoli che è un po’ come dire di non accostarsi alla fiamma viva perché si rischia di bruciarsi. E pensare che Piantedosi non è neppure un politico e perciò non ha l’obbligo di cianciare a vanvera. Com’è noto, prima di essere coptato nel governo, faceva il prefetto. Una figura istituzionale che si è sempre distinta nel centellinare, pesare e calibrare ogni parola, conscia del potere di queste ultime. Alla fine i prefetti possono essere definiti dei “servi muti” dello Stato, che parlano solo e quando è necessario. Se si vuole allargare il campo si può evidenziare come da sempre i ministri non politici rispetto agli altri abbiano avuto la caratteristica di cianciare il meno possibile e cercare di fare i fatti. Una caratteristica che rende molto appetibili, anche in maniera discutibile, i governi tecnici. Ecco ora il titolare del Viminale ha sfatato anche questo mito e confermato che aveva ragione Giuliano Amato quando diceva che per il ministero dell’Interno era meglio un politico di un prefetto. “Ofelè fa el to mesté” (pasticcere fa il tuo mestiere) dice un antico proverbio lombardo. E ci azzecca parecchio in questo caso.
Il problema per Giorgia Meloni, impegnata nel titanico sforzo quotidiano di mantenere una credibilità che, come sta accadendo anche per la neo segretaria del Pd Elly Schlein, era minata da ingiustificati pregiudizi, è che queste sortite dei suoi ministri, esponenti di partito e alleati rischino di vanificare tutto. Dicono che il presidente del Consiglio soffra già di stress. E ti credo: con questa compagnia avrebbe problemi anche un monaco buddista.
© RIPRODUZIONE RISERVATA