
I furboni e i tromboni. La politica italiana non perde mai occasione per manifestare la propria natura spassosa e ridanciana. L’ultimo esempio freschissimo è legato alla sulfurea, esagitata polemica provocata dalle frasi pronunciate alla Camera dal presidente del consiglio, molto critiche sul Manifesto di Ventotene, considerato da sempre un pilastro culturale dell’europeismo e accusato invece di essere autoritario e antidemocratico.
Ora, la premier è una politica intelligente e furba - soprattutto furba, a pensarci bene - che per sviare l’attenzione pubblica dalle profondissime divisioni della maggioranza sul tema del riarmo europeo ha pensato di mettere in scena la classica “derapata” - quella che si faceva da ragazzi in motorino per impressionare la fidanzatina sollevando nuvole di polvere sullo sterrato - e ha scelto di buttarla in caciara, come dicono dalle sue parti, con un trucchetto talmente banale al quale poteva abboccare solo un bambino. O il Pd, che in quanto a infantilismo politico non prende lezioni da nessuno. Apriti cielo, tutti ad azzuffarsi su un testo che nessuno ha letto mentre nel frattempo le magagne tra Fratelli d’Italia-Forza Italia e Lega venivano nascoste per bene sotto il tappeto.
L’operazione è riuscita, niente da dire. Ma è un’operazione mediocre. Che dimentica il memorabile aforisma del cardinale Richelieu - “Datemi sei righe scritte dal più onesto degli uomini e vi troverò qualcosa di sufficiente a farlo impiccare” -, estrapola alcune frasi dal contesto di un documento storico scritto nel pieno della guerra nazifascista e organizza un’operazione politicamente strumentale, culturalmente scorretta, storiograficamente ridicola ed eticamente censurabile, perché comunque sia Spinelli, Rossi e Colorni erano dei perseguitati dal fascismo, che prima li aveva sbattuti in galera e poi spediti al confino.
Se tenessimo per buono questo metodo, allora Meloni potrebbe leggere degli stralci della Bibbia, libro di violenza inarrivabile dal quale straboccano omicidi, infanticidi, stragi, stermini di massa, sodomie, torture e crocifissioni e dire che “la Bibbia non è il mio testo sacro”, potrebbe citare ampi stralci di Platone e Aristotele che rigurgitano di razzismo, schiavismo e maschilismo e dire che “i greci non sono i miei filosofi”, potrebbe ricordare passaggi dove Churchill pianifica i bombardamenti su milioni di tedeschi innocenti (anziani, donne, bambini) e dire che “Churchill non è il mio statista” o, per converso, mandare a memoria alcuni passi nei quali Hitler confida il suo amore nei confronti degli animali e dei bambini (biondi) e dire che “Hitler è il mio animalista” e altre decine di esempi. E’ chiaro? La premier è stata furba, ma la furbizia non è una qualità e da un premier ci si aspetterebbe una postura molto meno da capopopolo e molto più da statista. E invece ha fatto una pessima figura con chi ha superato la terza media e non ha ancora mandato il cervello all’ammasso. Non è stata all’altezza.
Ma per fortuna della destra, in Italia c’è la sinistra. Soggetto politico e soprattutto antropologico che mette sempre di buonumore e che, quindi, invece di rispondere in maniera puntuale al trabocchetto del premier ci è cascata mani e piedi con tanto di urla e lacrime ed ire funeste e ditini alzati e vergogna e inaudito e inaccettabile e tutto il conseguente repertorio di indignazione, indignazione, sacrosantissima indignazione, tambureggiata al suono di grancasse, pifferi e soprattutto tromboni. Ma non è finita, perché dopo aver fatto fuoco e fiamme su tutti i media di riferimento la faccenda ha preso una piega inquietantemente fantozziana. I meglio dirigenti del Pd hanno organizzato una terrificante gita aziendale a Ventotene, svoltasi nella giornata di ieri, con tanto di adunata in orario antelucano a Formia, aliscafo Atac varato dalla contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare, colazione al sacco, lettura dei sacri testi dell’amichettismo antifascista - Murgia, Scurati, Carofiglio -, raccoglimento sui sepolcri dei poveri martiri che se vedessero chi sono i loro eredi si rivolterebbero nella tomba, seduta di autocoscienza stile “Ecce bombo” nella quale porsi la fatidica domanda: “Dove abbiamo sbagliato?” e infine visione della trilogia del cinema d’autore che fa molto sinistra: “Dies Irae” di Carl Theodor Dreyer (sei ore!), “L’uomo di Aran” di Flaherty (nove tempi!) e soprattutto il più classico dei classici, “La corazzata Potemkin” di Sergej Ejzenstejn (diciotto bobine!) , di cui il segretario Schlein pare possegga una preziosissima copia personale.
Ma uscendo dal grottesco, basterebbe ricordare che il Manifesto è figlio di quel tempo e di quella cultura. Non è il Vangelo, ovviamente, anzi, è un testo di corto respiro, basato sull’identificazione tra totalitarismo e Stato nazionale e quindi tutto teso verso il suo superamento all’interno di un concetto di rivoluzione socialista che può tranquillamente calpestare il concetto di volontà popolare. In sintesi, come spiegato da Ernesto Galli della Loggia in un saggio di un decennio fa, il Manifesto propone una rivoluzione dall’alto di tipo giacobino-leninista che se ne frega di quello che pensano i cittadini e che prevede robustissime iniezioni di socialismo in economia. Un elaborato figlio dei suoi tempi, appunto, interessante, ma oggi non spendibile.
Però il male non è questo. Il male è che la sinistra, sempre a corto di argomenti, lo abbia trasformato in un totem, esattamente come ha fatto con la resistenza, una bandiera da sventolare a prescindere per squalificare chi non la pensa come lei e per abbarbicarsi a un’idea di superiorità antropologica che segna la sua crisi irreversibile. A sinistra dovrebbero elaborare qualcosa di più moderno e di più adatto al mondo di oggi per mettere fuori gioco le furbate astute e meschine della destra. Altrimenti rimaniamo sempre lì. O furboni o tromboni. Poi ci sarebbero quelli seri. Che però, nella repubblica delle banane, non li rappresenta mai nessuno.
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