La differenza tra destra e sinistra è che la prima litiga, ma poi trova sempre un accordo, la seconda litiga e basta. Lo dimostra l’intesa raggiunta per i candidati sindaco a Roma e Torino da una parte e il marasma tra Pd e Cinque Stelle dell’altra. Vero che i nomi lanciati da Meloni, Salvini e Tajani per interposta persona berlusconiana non sono proprio dei campioni di notorietà. Ma di questi tempi in cui sembra più facile arruolare un kamikaze che non convincere qualcuno a correre per cingere la fascia tricolore bisogna accontentarsi
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Diverso sarà forse il discorso della federazione tra Lega e forzisti. Perché non serve essere raffinati politologi per comprendere che la mossa è tutta pro domo Salvini. Quest’ultimo, sempre più incalzato da Giorgia Meloni nei sondaggi, ha pensato bene di lanciare un’Opa su quel che resta di Forza Italia per portare a casa altri consensi e blindarsi come leader della coalizione e, in prospettiva, presidente del Consiglio dopo le elezioni politiche che non si vede come il centrodestra possa perdere. Inoltre, con il bagno purificatore nella vasca forzista, il capitano laverebbe via qualche impurità mal sopportata in Europa, come certe compagnie. Inoltre potrebbe rintuzzare gli attacchi interni e sommersi dei leghisti moderati Giorgetti e Zaia. In cambio e per ottenere il suo benestare, Salvini avrebbe promesso a Berlusconi l’appoggio per l’elezione al Quirinale. Anche se questa ipotesi, al di là delle preferenze politiche, appare poco verosimile. Il Cavaliere spegnerà a settembre la candelina numero 85 e alla fine dell’eventuale mandato presidenziale ne conterebbe 92. Vero che sembra aver superato i problemi di salute che l’avevano riportato all’ospedale “San Raffaele”, ma le sue condizioni, aggravate dai postumi del Covid, restano preoccupanti.
La federazione del centrodestra, insomma, altro non è che una mossa tattica di Matteo Salvini, un contenitore destinato a non riempirsi e finalizzato a un’operazione di potere. Non a caso dentro Forza Italia i contrari sembrano superare i favorevoli e il rischio di ulteriori defezioni dopo quelle del presidente della Liguria, Giovanni Toti, e del sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, con ogni probabilità farà morire in culla il progetto. Anche se in politica mai dire mai.
Molti hanno cercato di accostare la federazione salviniana a quel predellino da cui un Silvio Berlusconi in buona salute annunciò la nascita del Popolo della libertà. Ma le analogie sono poche o nulle. Perché l’idea dell’allora presidente del Consiglio non fu un’operazione di potere, ma un’elaborazione politica che tentava di far nascere ciò che in Italia non c’è mai stato: una destra liberale, progetto elaborato anche dal post Fiuggi dell’Alleanza nazionale di Gianfranco Fini, che aveva reciso le proprie radici fasciste. L’operazione non riuscì perché il Cavaliere fu travolto da vicende personali e il socio non si dimostrò all’altezza della sfida. Si arrivò anche alla rottura tra i due. Questo per dire come continui lo scadimento di qualità del ceto politico, che ormai riesce solo a costruire progetti in funzione elettorale. E questo è un limite allarmante perché, come ha dimostrato l’esperienza dei due esecutivi che hanno preceduto l’attuale, non basta vincere le elezioni. Bisogna anche e soprattutto saper governare. Specie nei prossimi anni, con l’auspicata fine dell’emergenza pandemica e il previsto rimbalzo economico corroborato anche dai fondi del Pnrr. Una riflessione che chi pensa di essere pronto al grande salto verso Palazzo Chigi dovrebbe forse cominciare a mettere in cantiere.
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