Cristina, così la ’ndrangheta l’ha uccisa
Sequestro Mazzotti Inizia oggi in Corte d’Assise a Como il processo per il sequestro e l’omicidio della giovane. Davanti ai giudici quattro uomini dei clan calabresi, sono accusati di aver ideato e preso parte al rapimento
Già tredici persone sono state condannate per il sequestro e l’omicidio di Cristina Mazzotti, avvenuto poco più di 49 anni fa: uno dei sequestratori, i carcerieri, chi occultò il cadavere, i telefonisti e alcune delle persone che cercarono di ricettare il miliardo di riscatto pagato dalla famiglia. Ma dall’elenco dei condannati, a parte il nome di Antonino Giacobbe, erano rimasti esclusi i capi dell’organizzazione. Quelli che hanno pensato, progettato e messo a segno il rapimento. Ideatori ed esecutori materiali, tutte persone legate a doppio filo alla ’ndrangheta.
È la malavita calabrese ad aver voluto il sequestro della diciottenne milanese, che a Eupilio veniva tutte l’estati con la famiglia. E che a Eupilio nell’estate di 49 anni fa è stata rapina, per morire in mano ai suoi carcerieri un mese più tardi.
Come si è arrivati in aula
Ora quel “livello” criminale è chiamato a rispondere di uno dei più efferati fatti di cronaca avvenuto nel Comasco. Nel primo pomeriggio inizia infatti, davanti alla Corte d’Assise di Como, il processo a carico dei presunti ideatori del rapimento, Giuseppe Calabrò, 74 anni, e Giuseppe Morabito, 80 anni, e del presunto esecutore materiale del sequestro - insieme agli stessi Calabrò e Morabito - Antonio Talia, 69 anni. A processo anche l’uomo che, grazie a una vecchia impronta digitale e poi alla successiva confessione, ha ammesso di aver preso parte al rapimento di Cristina: Demetrio Latella, 70 anni.
L’udienza che si apre oggi è sicuramente unico nel suo genere. Perché in primo grado si celebra un processo per una vicenda avvenuta quasi mezzo secolo e perché tra i testimoni citati dall’accusa - in aula ci sarà il pubblico ministero dell’antimafia di Milano, Cecilia Vassena - vi sono anche tre deceduti. La Procura ha infatti citato Angelo Epaminonda, storico boss della ’ndrangheta che imperversava negli anni Settanta e Ottanta, e il boss Antonio Zagari. I due, infatti, già una decina di anni dopo il sequestro parlarono del caso Mazzotti come di una vicenda nata per ordine della ’ndrangheta e gestita dai clan calabresi.
Ma il testimone chiave è anche uno degli imputati, ovvero quel Demetrio Latella che nel dicembre 2007, dopo che la squadra mobile di Como associò al suo nome una delle impronte trovate sull’auto dove viaggiava Cristina con i suoi amici, disse che con lui presero parte attiva al sequestro Giuseppe Calabrò, l’uomo che lo assoldò, e Antonio Talia.
Il ruolo di Morabito
Per quanto riguarda Morabito, il suo nome è rimasto imbrigliato nell’inchiesta in quanto la Giulia blu che con altre due auto partecipò al sequestro era di proprietà di sua sorella e, per sua stessa ammissione, in uso a lui stesso. Inoltre sempre a suo carico ci sono le parole messe a verbale a suo tempo da Zagari, da qui l’idea di citarlo tra i testimoni, ancorché deceduto, per poter usare i verbali di allora.
Tra i testimoni che saranno sentiti in aula anche i fratelli di Cristina, Vittorio e Marina Mazzotti, il dirigente della sezione criminalità organizzata della squadra mobile di Milano, quest’ultima diretta - quando la polizia ha svolto la seconda tranche di indagini - dall’attuale questore di Como Marco Calì, nonché Carlo Galli ed Emanuela Luisari, ovvero i due amici che si trovavano accanto a Cristina la notte del sequestro.
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