«Mio papà schiavo di Hitler. Ora trasmetto la sua storia»
Albavilla Giorgio Tagliabue ha ritrovato i documenti e vuole diffonderli . «La ritirata di Russia, poi deportato in Polonia. L’avevano dato per morto»
«Papà parlava della campagna di Russia e poco della prigionia in Germania, come schiavo di Hitler, e aveva custodito tutto in questa cassettina di legno, chiusa con lucchetto. Ora sento il dovere di trasmettere questa storia ai miei nipoti e a tutti i ragazzi e ai giovani per dire con forza no a ogni forma di dittatura, di guerra e di violenza». A parlare è Giorgio Tagliabue, geometra, 78 anni, che non nasconde la commozione mentre accarezza la cassettina di legno e i documenti del padre, Carlo Antonio Tagliabue, morto nel luglio 1997, all’età di 87 anni.
Vicenda umana
Una vicenda umana dolorosa, fatta di guerra e di prigionia, che ora, in un mondo piagato dai bagliori delle armi e dalla violenza dei nuovi totalitarismi, diventa insegnamento per i giovani. Carlo Antonio dal 3 settembre 1941, come Alpino del Reggimento Artiglieria Alpina Tridentina, gruppo Valcamonica, fu impegnato nella campagna di Russia, sul Don. Campagna che poi si trasformerà in disfatta italiana: «Papà ha fatto la ritirata e ha sofferto la fame, il grande freddo, che gli ha provocato un congelamento ai piedi, e la brutalità della guerra – racconta il figlio – Ha partecipato alla battaglia di Nikolajevka il 26 gennaio 1943».
Ed è rimasto in silenzio tanti anni: «Solo poco prima di morire ha iniziato a raccontare quello che ha patito: gli attacchi russi coi katyucha, lo sfinimento fisico, le gambe fasciate con strisce di stoffa per non congelare. Chi si fermava moriva congelato. In mezzo a tanta sofferenza e morte ricordava anche gli aiuti da parte delle donne delle isbe russe, che gli davano rifugio perché dicevano: “Italiani, brava gente”».
Rientrato in Italia, nell’aprile 1943 fu ricoverato all’ospedale di Lecco. Ma la sofferenza del Sergente Alpino non era affatto terminata: «Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 venne richiamato a Vipiteno e non ebbe dubbi: non aderì assolutamente alla Repubblica Sociale nazifascista - dice ancora il figlio - E per questo motivo, come tanti suoi commilitono venne fatto prigioniero dai tedeschi e deportato dopo un lungo viaggio, nel campo di lavoro e prigionia di Stablak, a Nord della Polonia, vicino all’attuale confine dell’enclave russa di Königsberg, oggi Kaliningrad».
«Poiché era falegname, fu destinato alla fabbricazione di baracche di legno tra patimenti, fame, soprusi e freddo – prosegue il figlio nel racconto – All’avanzata dei russi, venne mandato, con gli altri prigionieri schiavi di Hitler, a costruire trincee sul fronte di guerra , col pericolo di essere colpito dai russi e dai tedeschi. Papà raccontava di essersi riparato, insieme ad altri italiani di prigionia, nella cantina di un cascinale distrutto per non finire colpito. Qui vennero raggiunti da soldati che parlavano russo e gridarono subito di essere italiani: erano finalmente liberi, tra lacrime e commozione». Portati nel centro di raccolta russo di Gumbinnen, ora Gusef, vennero curati e fecero poi rientro a casa, tra mille peripezie.
Il ritorno
A Carcano, dove viveva la famiglia, Carlo Antonio era stato dato ormai per morto ed era già stata celebrata la messa per il defunto. Ma a sorpresa, il 12 ottobre 1945, il sergente fece rientro a casa. Sulla strada principale, scheletrico e coi segni di anni di guerra e prigionia, in un primo momento non venne nemmeno riconosciuto dal figlio Dante, che lo prese a sassate. Poi scoppiò una gioia incontenibile. Riabbracciò a la moglie Giuseppina e la figlia Rosa.
«Papà era riservato: l’ho visto commosso solo quando io entrai negli Alpini per la leva militare, – chiosa Tagliabue – Nel 2017 ha ottenuto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri la medaglia d’onore alla memoria. Credo che sia quanto mai doveroso trasmettere questa storia ai bambini, ai ragazzi e ai giovani».
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