Processo Mazzotti: «Con i rapimenti ci mangiavamo tutti»

Il testimone L’ex mafioso Saverio Morabito ha sequestrato sette persone tra cui anche Cesare Casella. «Tutti gestiti dalla ’ndrangheta. Noi divisi in tre gruppi: i rapitori, i carcerieri e chi incassava»

Con i rapimenti, tra gli anni Settanta e Ottanta, «un po’ tutti si bagnavano il becco». Parola di Saverio Morabito da Platì, ex affiliato alla ’ndrangheta e da trent’anni collaboratore di giustizia. Ieri ha testimoniato nel processo per il sequestro e l’omicidio di Cristina Mazzotti, la ragazza di 18 anni portata via da Eupilio nell’estate di cinquant’anni fa e morta in una buca a Castelletto Ticino.

In realtà Morabito, di quella vicenda, ha candidamente ammesso di non sapere nulla. Perché fino al 1977 lui era in carcere. Solo successivamente alla sua liberazione ha cominciato a far parte attiva dei gruppi di rapitori che, per conto della ’ndrangheta, hanno seminato il terrore in Lombardia. Ben sette i sequestri di persona a scopo estorsivo ai quali ha partecipato, tra i quali quello di Cesare Casella, portato via da Pavia nel gennaio 1988 e liberato soltanto due anni più tardi.

Come avvenivano i rapimenti

«Le modalità erano quasi sempre le stesse» ha detto in aula rispondendo, soprattutto, alle domande del pubblico ministero Cecilia Vassena e dell’avvocato della famiglia Mazzotti, Fabio Repici: «L’operazione avveniva in tre fasi: il gruppo che rapiva l’ostaggio, il gruppo che lo custodiva e il gruppo incaricato di condurre le trattative e ritirare i soldi. Nel gruppo d’azione indicavano sempre me, perché mi ritenevano un elemento trainante del gruppo. A volte facevamo salire da Platì uno o due persone che partecipavano, perché così facevano entrare dei soldi nella ‘ndrina di giù». Che tutti guadagnavano con i rapimenti.

Una vera e propria regia non c’era, ha spiegato ancora alla Corte d’Assise di Como (davanti alla quale sono imputati in tre, Giuseppe Calabrà, Antonio Talia e Demetrio Latella, dopo che il quarto imputato, Giuseppe Morabito con casa a Tradate, è morto nelle scorse settimane): «Spesso un rapimento partiva da una dritta da parte di qualcuno. Ci veniva indicato chi rapire dandoci informazioni sulla situazione economica della famiglia. Le decisioni poi le prendevamo direttamente noi».

Ma come facevano a coordinarsi i vari gruppi? «Quando il primo gruppo decideva di fare un rapimento andava da Saverio Sergi, mio conterraneo di Platì, che poi si recava da Giuseppe Morabito di Tradate per chiedere se era possibile custodire un rapito. Noi ci occupavamo del rapimento, loro si incaricavano di custodirlo. L’altro gruppo che conduceva le trattative lo decidevamo sempre tra di noi. Tutta la situazione veniva gestita a compartimenti stagni, così che rimanesse sicura il più possibile: uno solo di noi conosceva uno solo che conduceva le trattative e uno solo di noi conosceva uno che custodiva l’ostaggio».

i contatti

Nel corso della sua testimonianza, il collaboratore di giustizia ha anche citato l’imputato Giuseppe Calabrò, come sempre presente in aula anche ieri: «A quel periodo abbiamo incontrato Francesco Calabrò e Giuseppe Calabrò, che sono fratelli tra di loro. Giuseppe è venuto in un paio di occasioni, ha parlato con Paolo Ciccio Sergi e mi dissero che era venuto per chiedere se avevamo disponibilità stupefacenti e ha chiesto se eravamo a conoscenza di informazioni sul rapimento Casella». Ma di un suo coinvolgimento nel sequestro Mazzotti? «No, di questo non mi risulta nulla».

Si torna in aula tra due settimane.

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