Strage di Erba, Gallorini: «Io, infangato dalle bugie»
Intervista L’ex comandante dei carabinieri di Erba rompe il silenzio con La Provincia e Quarto Grado: «Ho subito attacchi personali, non posso più tacere. Indagini a senso unico? Non è affatto vero, ecco perché»
All’improvviso la voce inciampa. E se sei impegnato a prendere appunti sulle risposte, la sola cosa che percepisci è un silenzio improvviso. Ma dietro quel silenzio c’è di più. Ed è solo lo sguardo a svelarlo. Luciano Gallorini ha gli occhi lucidi. Dopo oltre un’ora di confronto alla fine di commuove. «Cosa la fa commuovere?». Sospira profondamente, l’ex comandante dei carabinieri di Erba: «Quando tu una persona l’hai infangata, anche scorrettamente... beh, a quella persona rimane. Se mi danno dello scorretto in televisione o sui giornali, le persone che ascoltano e leggono poi pensano che io lo sia. A mia moglie hanno chiamato a casa amici convinti che io fossi stato indagato o avessi chissà cosa da nascondere».
Per la prima volta, da quando la bufera si è scatenata, Luciano Gallorini accetta di parlare. L’odiato - dai difensori di Rosa Bazzi e Olindo Romano - ex comandante dei carabinieri di Erba risponde alle domande de La Provincia e dell’inviata di Quarto Grado, Martina Maltagliati. Accetta di aprirsi: «Perché la mia immagine non può essere quella che è stata dipinta in questi anni. Anche martedì, a Brescia».
L’anticamera dell’inferno
«Ho sempre creduto, per il rispetto che ho dei ruoli istituzionali, di non dover parlare. In passato l’ho fatto solo quando il comando generale me l’ha chiesto. Ma sulla mia persona, negli ultimi anni, sono state dette inesattezze, se non vere e proprie falsità. La critica al lavoro o all’indagine va benissimo, ma perché attaccare le persone? Perché attaccare me? Io questo non l’ho mai capito».
Gallorini ci riceve nella sua casa di Erba. Nel salotto, con le foto dei figli alle spalle e alcune immagini sacre appese alle pareti, tra i suoi quadri. «La prima cosa che ricordo pensando alla strage di Erba? Che quella sera, l’11 dicembre 2006, chi è intervenuto in via Diaz ha visto l’anticamera dell’inferno. Io l’inferno non so come possa essere, ma quella sera in quella casa abbiamo visto la sua anticamera».
Entrato nell’Arma all’età di 17 anni, dopo aver frequentato la scuola sottufficiali ha lavorato per anni al nucleo investigativo di Milano. «Erano gli anni delle Br, dei sequestri di persona. Anni di inchieste difficili». Gallorini cresce professionalmente, poi viene trasferito a Como. E quando si libera il comando della stazione di Erba diventa comandante. E lo resta per 35 anni.
«La prima cosa che feci, con i miei uomini, arrivato in via Diaz fu di allontanare le persone, avvisare il pubblico ministero di turno e i miei superiori. Quindi, visto che c’era un ferito e non sapevamo chi potesse essere l’autore di una simile strage, detti disposizione che il signor Frigerio venisse accompagnato e piantonato in ospedale, così un carabiniere salì con lui in ambulanza. Appena arriva il pm e la scientifica iniziamo a ragionare su chi potessero essere le vittime». Arriva anche il medico legale, Giovanni Scola: «Quando esce da quella casa mi cerca e mi dice: questo non è certo un delitto opera di professionisti».
I primi sospettati
La prima accusa mossa a Gallorini dagli innocentisti, è di aver puntato subito sui coniugi Romano: «In realtà il primo sospetto è stato Azouz Marzouk, ma dopo un’ora lo stesso Carlo Castagna ci ha detto che il genero era in Tunisia. Comunque all’una del mattino siamo andati a casa del fratello di Azouz, l’abbiamo perquisita, abbiamo sequestrato dei coltelli, il furgone e una moto potenzialmente di interesse. Mentre siamo lì arriva la telefonata di Azouz e me lo passano. E gli dico: “Appena può rientri in Italia”». I famigliari di Azouz vengono portati in caserma. Mentre alcuni carabinieri li sentono, altri iniziano a guardare nell’archivio: «Emergono le denunce a carico dei vicini di casa fatte proprio da Raffaella Castagna. Verifichiamo questa situazione di conflittualità forte e notiamo che l’11 dicembre i vicini dovevano comparire a processo per la denuncia presentata per quelle liti».
Alcuni carabinieri decidono di bussare alla porta dei Romano: «Andarono i miei collaboratori, mi chiamarono e mi dissero: “C’è qualcosa di strano”. La signora Rosa aveva un taglio fresco al dito, lui delle ecchimosi al braccio e la lavatrice andava alle 3 di notte passata. Mi si accusa per aver bussato nel cuore della notte a casa loro, ma immaginate non fossimo andati, cosa ci avrebbero detto? Era un obbligo fare quell’accesso». Rosa venne caricata sull’auto dei carabinieri e portata in caserma. «Il signor Olindo chiese di poter prendere la sua auto. Insieme a lui andò il carabiniere Cardogna, sul sedile del passeggero. Cardogna non aveva partecipato al sopralluogo nella casa della strage».
La perquisizione, per piazzare le microspie, avverrà solo il giorno dopo a mezzogiorno: «Fino al mattino ho agito di iniziativa come ufficiale di polizia giudiziaria, poi tutto è stato fatto con il mandato della Procura».
Anche la famosa visita del 20 dicembre a Mario Frigerio in ospedale, quella in cui lui avrebbe convinto il testimone a fare il nome di Olindo Romano? «Fu il dottor Nalesso (sostituto procuratore a Como ndr) a dirmi: “Gallorini vada a fare un colloquio investigativo con il signor Frigerio”. Io informai i miei superiori che vennero con me, ma mi dissero: il colloquio lo faccia lei». Il luogotenente non nega affatto di aver fatto il nome di Olindo: «L’ho detto anche a processo. Non è vero che ho negato di aver fatto il nome a Frigerio». Verso la fine dell’incontro, il superstite chiede a Gallorini: «Perché mi ha chiesto di Olindo?». E poi si mette a piangere.
«A noi ha sorpreso il pianto. Quindi gli ho chiesto perché piangesse e lui mi ha detto perché credeva che fosse stato l’Olindo. Rientrato in sede ho fatto un’annotazione di servizio» firmata solo da Gallorini e non dai suoi superiori. Altra stranezza, per la difesa. «Ma lo prevede il codice di procedura: l’ufficiale di polizia giudiziaria annota anche in forma riassuntiva quanto svolto, ed è un suo appunto. Per questo l’ho firmata io. Non c’è alcuna stranezza».
Si sofferma a pensare. «Loro sanno benissimo cos’hanno fatto» dice ancora, riferendosi ai due coniugi. «Hanno fatto una scelta, che io rispetto. Ma spero che questa storia finisca presto e che, in loro, resti qualcosa di umano». Si alza dalla sedia. Alza lo sguardo: «Mi sono sentito leso… già in appello mi avevano attaccato. Ma ci sta, ognuno fa la sua parte. Ma quando la tua parte ha delle conseguenze sulla vita degli altri, è giusto farla?».
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