Strage di Erba, dopo 17 anni: Rosa Bazzi e Olindo Romano da sempre colpevoli
Il caso L’11 dicembre 2006 il massacro di via Diaz. Ancora oggi non c’è pace per le vittime e i loro parenti
Rosa Bazzi e Olindo Romano non sono innocenti. E l’amore non giustifica tutto. Per anni i due inquilini del numero 25 di via Diaz a Erba sono stati raccontati come la coppia vissuta sotto una cattiva stella. Come gli innocenti coinvolti in un caso di efferata cronaca nera. Un caso con cui però – secondo alcune narrazioni – non avrebbero avuto nulla a che fare. Non è così. L’esito di questa vicenda giudiziaria, che è stata anche e soprattutto una tragedia umana, è riassunto dalle sentenze emesse da ben 23 giudici in tre differenti gradi di giudizio. Tutti hanno dichiarato Rosa e Olindo colpevoli di aver ucciso in una sola, orribile notte, a colpi di spranga e con due coltelli, quattro persone: Raffaella Castagna, Paola Galli, Valeria Cherubini e il piccolo Youssef Marzouk, 2 anni .
Il movente? Troppi rumori, dalla casa dei vicini…
«Non esiste ragionamento né percorso logico in grado di colmare il vuoto abissale che esiste tra la causa della tragedia e le mostruosità che sono state commesse: sembra impossibile anche solo ipotizzare che delle futili liti di condominio abbiano potuto esacerbare gli animi fino al punto di rafforzare e consolidare un progetto criminoso così atroce che aveva come unico obiettivo l’annientamento della controparte. Eppure questo è esattamente quello che è accaduto». Sono le parole con cui i giudici di Como descrivono i fatti atroci dell’11 dicembre 2006, in una sera freddissima e senza stelle nel cielo.
L’auto
Ripercorrere quei fatti serve soprattutto per mettere punti fermi in una vicenda processuale chiusa, che molti vorrebbero aprire. Punti fermi, che passano anche da oggetti banali. Come un’auto. La sera in cui venne uccisa dalla spranga e dal coltello di Rosa e Olindo, Paola Galli viaggiava su una Lancia.
Una macchina. Un’auto intrinsecamente connessa ai primissimi minuti dopo i quali la strage di Erba si è consumata. È il primo elemento che inchioda al banco dei colpevoli la coppia di coniugi. Quella Lancia parcheggiata tra le mura gialle della corte di via Diaz a pochi minuti dalle otto non è di Paola Galli: appartiene al marito, Carlo Castagna. Lei, Paola, ha una Panda. E gira sempre con quella. A spiegare il motivo di questo scambio di auto è il figlio di Paola e Carlo, Pietro Castagna, nel corso dell’udienza dibattimentale del 22 febbraio 2008.
Pm: «Lei si ricorda perché quel giorno la mamma usò l’altra macchina?». Pietro: «Per un semplice motivo; mi ha detto, “guarda, c’è su il seggiolino di Youssef, ci sono sui telecomandi di casa di Raffaella e quindi uso quella». Ma perché questo dettaglio è così importante? Perché, la Lancia, Paola Galli la prendeva rarissimamente. Di solito, in via Diaz, arrivava sulla Panda.
Eppure Olindo Romano nel corso dell’interrogatorio nei giorni successivi al suo arresto, ha fatto riferimento proprio alla Lancia, e non all’abituale macchina di Paola Galli: «Quando è arrivata la Castagna con la macchina del padre e la figlia e il nipote, io ero già fuori». Anche Rosa Bazzi, durante un interrogatorio in separata sede, conferma la stessa versione del marito: «Si trattava di una Lancia vecchio tipo di suo padre». Ma se Rosa Bazzi e Olindo Romano sono innocenti, e dicono che all’ora del delitto loro si trovavano in viaggio verso Como, come potevano sapere che la sera dell’11 dicembre 2006 la signora Galli stava usando la macchina del marito e non la sua solita Panda?
Il contatore
Nell’appartamento dove Raffaella Castagna e suo figlio Youssef vivevano, l’energia elettrica è stata interrotta alle 17.45 dell’11 dicembre. Gli accertamenti hanno chiarito che si è trattato di un distacco di energia «disposto manualmente e in modo selettivo tramite la manomissione del contatore». Un contatore. Sembra banale, vero? Eppure, da un contatore è stato possibile capire molti aspetti della dinamica della strage.
Il contatore Enel di casa Castagna era situato vicino all’ingresso principale della corte, in un alloggio a muro posto in un luogo defilato rispetto al resto degli appartamenti: lì si poteva accedere solo dopo aver aperto con una chiave una serratura, che permetteva poi di aprire le ante di ferro poste davanti al contatore come protezione. Ma per aprire quelle ante di ferro e arrivare al contatore della famiglia Castagna, era necessario sbloccare un’ulteriore anta fissata da perni. Insomma, un’azione non impossibile, ma che sicuramente richiede un certo lasso di tempo. Ma questo cos’ha a che fare con la strage e con Rosa e Olindo? A spiegarlo sono quattro fatti. Il primo, il più ovvio ma il meno fattuale: l’interruzione dell’energia elettrica avrebbe creato le condizioni per il delitto perfetto, favorendo l’effetto sorpresa e rendendo più vulnerabili le vittime. Il secondo: l’armadietto di metallo esterno in cui erano alloggiati a muro i contatori era chiuso a chiave, di difficile apertura e accessibile, per entrambi i motivi, in modo rapido e tale da passare inosservato solo ai condomini della Corte di Via Diaz. Ma – e qui entra in gioco il terzo fatto – a quell’ora, le 17.45, nella corte del ghiaccio c’erano solo Hebba Badoura, che viveva al pianterreno con due figli piccoli, Ramon Pietro, che abitava nell’appartamento contiguo a quello di Raffaella Castagna, deambulava a fatica ed era quasi sicuramente sordo, e i coniugi Romano. Eppure solo i coniugi Romano, tra i presenti a quell’ora nella Corte di via Diaz, avevano motivo di discordia verso Raffaella. Tant’è – e questo è il quarto e ultimo fatto – che avevano già staccato una volta la luce in casa di Raffaella Castagna, evento che diversi amici di lei ricordavano benissimo in quanto presenti.
Il tappeto, i cuscini e l’alibi
«Una bugia fa in tempo a viaggiare per mezzo mondo, mentre la verità si sta ancora mettendo le scarpe». Così la raccontava Mark Twain. Ed è un’immagine perfetta per raccontare verità, bugie, recite mal riuscite a favore di telecamera e la spettacolarizzazione del dolore che a 17 anni di distanza e con una verità processuale granitica torna ancora a tormentare le vittime.
Un tappeto, dunque. Il 10 gennaio 2007, nel carcere di Como, Olindo Romano si decide a confessare. E davanti ai pubblici ministeri parla di un tappeto. Un tappeto che lo ha aiutato a far sparire i vestiti sporchi di sangue che lui e sua moglie indossavano quell’11 dicembre. Ma nel parlare di quel tappeto Olindo fa qualcosa di essenziale per le indagini sul caso. Fornisce la risposta a un quesito altrimenti senza soluzione: perché le tracce di sangue della strage si interrompono poco oltre il portoncino d’ingresso della palazzina del ghiaccio di via Diaz?
Di un tappeto si tornerà a parlare anche durante il processo, l’anno successivo. Una ex vicina di casa dei coniugi Romano e di Raffaella Castagna, Daniela Messina, il 22 febbraio 2008 siede sul banco dei testimoni della corte d’Assise di Como. E ricorda di essere andata a trovare i coniugi Romano a casa loro, sei giorni dopo la strage: «Hanno detto che quella sera loro erano venuti a Como per comprare dei mobili, un tappeto da mettere all’ingresso e una poltrona». Un tappeto… da mettere all’ingresso. Quando poche ore dopo la strage i carabinieri bussarono alla porta dei coniugi Romano, la prima cosa che fece Rosa Bazzi fu consegnare uno scontrino datato 21.37 dell’11 dicembre 2006 del McDonald’s di Como. L’alibi, nell’idea dei coniugi. La storia del giro a Como per vedere le vetrine viene ripetuta da Rosa e Olindo anche agli inquirenti, prima di confessare. Ma se l’alibi non è inventato, ma è reale, è possibile davvero dimenticarlo a distanza di anni? O quella serata, che ha cambiato le vite, è destinata a rimanere per sempre impressa nella mente? È qui che entra in gioco la recita.
Davanti alle telecamere de Le Iene Olindo cade dalle nuvole, quando gli si chiede come mai quella sera avessero cenato così tardi, quando di solito alle 19 erano a tavola. Quindi si riprende e risponde: «Quando non hai voglia di cucinare.. no… esci di casa e vai a mangiare qualcosa al McDonald…». Nessun cenno delle vetrine nel centro di Como. O del tappeto.
Un tappeto. Due cuscini. Dice Rosa Bazzi, nell’interrogatorio davanti al giudice delle indagini preliminari. Giudice: «Quando voi siete usciti dall’appartamento, si lamentavano?». Rosa: «Sì, allora abbiamo preso dei cuscini… ho preso dei cuscini del divano e li ho appoggiati sopra il viso». Giudice: «Li ha appoggiati o li ha schiacciati, sopra al viso?». Rosa: «No, alla mamma della Raffaella gliel’ho appoggiato e alla Raffaella un pochettino gliel’ho premuto». Sulla vicenda dei cuscini presenti sul luogo del delitto, Olindo Romano ci prova, ancora una volta, a recitare la parte dell’innocente incastrato. E – sempre a Le Iene – racconterà il falso, ovvero di come i pubblici ministeri gli avrebbero mostrato tutte le foto del luogo del delitto. Anche se così fosse stato, voi, le avete mai viste le foto scattate quella notte in quell’appartamento? Chi le ha osservate con attenzione assicura che la presenza dei due cuscini accanto ai cadaveri non balza davvero agli occhi… quello che ti si cuce nella mente è il corpo di Youssef steso sul divano con le braccia larghe, il corpo di Paola o quello di Raffaella, sui quali gli assassini hanno cercato di appiccare pure il fuoco. È il corpo di Valeria, inseguita e uccisa fino a piano di sopra. È il sangue. La distruzione. Il nero dell’incendio.
La Bibbia
Secondo Pablo Neruda «la spontaneità è frutto di lunghe meditazioni». E questa citazione vale soprattutto se quella spontaneità è una Bibbia trasformata in diario personale. E vale soprattutto se per scriverlo, il tuo diario, hai a disposizione tutto il tempo che vuoi. Se sei chiuso in una cella, per esempio, impegnato a rimuginare su un’accusa da ergastolo che ritieni ingiusta. Perché quello che nessuno vuole capire è che tu sei innocente.
La spontaneità è, innanzitutto, “assenza di costrizione”. E così se pensi che i giudici ti abbiano incastrato, che i carabinieri ti abbiano ingannato, che l’avvocato non ti abbia difeso, allora il diario personale diventa per forza il luogo in cui puoi dar sfogo alla tua frustrazione. Il luogo, forse l’unico, in cui sei libero finalmente di raccontare la tua verità. Di pronunciare la tua innocenza. E invece Olindo cosa scrive su quella Bibbia? “Abbiamo fatto bene ad ucciderti, Raffaella”.
La tempistica è importante per rileggere il diario scritto in cella da Olindo Romano, sulle pagine di una Bibbia. Tra Nuovo e Vecchio Testamento, nel corso di 9 mesi, la scrittura del carcerato si fa strada, da febbraio a novembre. È importante tenere a mente la data del 10 febbraio 2007, la prima comparsa delle parole di Olindo sulla Bibbia, perché in quel diario si sprecano le frasi confessorie, fino all’estate. Poi improvvisamente succede qualcosa: con l’arrivo dei nuovi avvocati cambia tutto quanto.
Leggendo le parole scritte sulla Bibbia da Olindo Romano nel corso di quel 2007 si rimane sommersi da annotazioni che stravolgono completamente la visione dei fatti cruenti avvenuti nella palazzina di via Diaz. Si passa da un “noi sappiamo quanto sia grande il nostro pentimento”, vergato proprio dalla mano di Olindo, a “gli avvocati mi hanno chiesto di dare una spiegazione alle due coltellate che ho detto di aver dato a Valeria Cherubini in testa”. Poi ancora da “Rosa vede la Raffaella davanti alla sua branda come quella sera quando la uccidemmo” fino ad arrivare a “i coniugi Frigerio dovevano farsi i cazzi suoi, chiunque li ha uccisi ha fatto bene”. Ad aprile del 2007 Olindo scrive: “La vendetta è come il veleno che ti invade tutto il corpo”. E ancora: “Tutti sapevano, nessuno fece nulla per impedire la tragedia” E poi: “Quando ci sentiamo minacciati diventiamo violenti e ci difendiamo e attacchiamo!” Sono le 12.30 del 6 aprile quando sulla sua bibbia-diario l’assassino di via Diaz annota: “Voi da lassù in cielo, noi qui in terra sappiamo quanto sia grande il nostro pentimento. Lo abbiamo già manifestato ma nessuno se n’è accorto”. Nemmeno un paio di settimane più tardi, Olindo Romano non potrebbe essere più chiaro nella sua confessione, quando scrive questa preghiera tra le pagine della Bibbia diventata ormai lo scrigno dei suoi segreti: “Accogli nel tuo regno il piccolo Youssef, sua mamma Raffaella, sua nonna e Valeria a cui noi abbiamo tolto il tuo Dono, la vita”!
Arriviamo a maggio 2007 e le pagine si arricchiscono di ulteriori riflessioni: “Abbiamo partecipato portati dall’odio e dall’esasperazione al raccolto che altri hanno seminato nel tempo volontariamente”. Troppo criptico per essere considerata una confessione? Saltiamo direttamente al 31 maggio: “Oggi a colloquio con la mia vita (Rosa) mi ha raccontato che sono alcune notti che vede la Raffaella davanti alla sua branda, come quella sera, con il sangue che le scende sul volto e i colpi che io le ho inferto quando la uccidemmo. Le ha detto che abbiamo fatto bene a ucciderti”.
Era inverno… ed era primavera. Poi ecco l’estate. Che nel caso di Olindo Romano e Rosa Bazzi coincide con un nuovo collegio difensivo. Ecco il cambio di rotta repentino e senza via di ritorno.
L’attrice Mae West scriveva: “Tieni un diario, e un giorno o l’altro il diario ti terrà per la gola!”… ed è un po’ quello che è accaduto a Olindo.
Un’auto, un contatore, un tappeto, due cuscini, una Bibbia. Oggetti semplici. Dettagli. Non bastassero un testimone oculare, due confessioni fiume piene di dettagli e di particolari inediti, una macchia di sangue, un alibi inesistente, un movente d’odio attualissimo (due giorni dopo la strage Rosa e Olindo dovevano comparire a processo citati da Raffaella), allora non c’è che ricorrere ai dettagli. E basterebbero questi per sciogliere ogni dubbio sulla colpevolezza. E, dopo 17 anni di speculazioni, chiudere definitivamente una pagina di cronaca atroce che tanto, troppo dolore ha causato in tantissime persone.
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