«Su Rosa e Olindo ci sono solo prove da fantascienza»
L’udienza Tre mesi per sapere se ci sarà la revisione. I legali attaccano frontalmente: «Cose mai viste prima»
Maneggia nervosamente gli occhiali, Fabio Schembri. Li abbandona sul tavolo, il tempo di passarsi la mano tra i capelli. Quindi si gira, fissa i colleghi quasi a cercare il loro consenso. Riprende gli occhiali. Si fa passare una foto. Alza la voce. Si sarà preparato chissà quanto per questo momento. Per la giornata clou, quella in cui provare a convincere i giudici di Brescia che il processo a Rosa Bazzi e Olindo Romano va rifatto. Ma, lo stesso, appare nervoso. Agitato. Di certo accalorato.
La ricostruzione alternativa
È lui, del poker di difensori calato in questa assolata giornata bresciana, il fulcro attorno a cui ruotano tutti. È lui a “sporcarsi le mani” attaccando l’odiato luogotenente Gallorini, lo psichiatra Massimo Picozzi, il brigadiere Carlo Fadda e pure un suo collega, l’avvocato Pietro Troiano, primo difensore dei coniugi . È lui a litigare con l’avvocato generale, Domenico Chiaro, quando mostra una foto con cui prova a fornire una narrazione tanto suggestiva quanto smentita da un altro scatto. È sempre lui ad affondare la parola contro il ricordo di Mario Frigerio, stando attento a non sporcare la memoria dell’uomo sopravvissuto all’inferno, ma comunque raccontando – ora che Frigerio non può più parlare – che la sua era una falsa memoria. Un falso ricordo. E, di conseguenza, una falsa accusa contro i vicini di casa.
Ed è ancora lui a illustrare le priorità con cui abbattere il castello delle prove che hanno sancito, al di là di ogni ragionevole dubbio, la colpevolezza di Olindo Romano e Rosa Bazzi.
Si parte dalla morte di Valeria Cherubini. Solo smontando la ricostruzione sull’assassinio della moglie di Frigerio, si può muovere la prima pedina per dare scacco all’accusa in una sola mossa. Perché se davvero, come sostiene la difesa, la donna è stata uccisa dentro casa sua, in mansarda, mentre i vicini e primi soccorritori Ballabio e Bartesaghi entravano nella palazzina della strage, allora è impossibile che a compiere la mattanza siano stati i due coniugi. Perché non sarebbero potuti fuggire verso casa: «Il punto di partenza è la ricostruzione della morte di Cherubini. Parte tutto da lì. I killer erano ancora dentro. E quindi non erano Rosa e Olindo». Ma la questione è: davvero Valeria Cherubini è stata uccisa in casa sua? Davvero gli assassini erano ancora lì scattati i soccorsi?
Schembri mostra le fotografie scattate quella notte per dimostrare che il cortile è asciutto e che quindi, quando l’accusa sostiene che di tracce di sangue non se ne trovano perché i vigili del fuoco hanno inondato tutto e gli unici che potevano trovare un nascondiglio agevole erano i coniugi Romano, racconta una verità artefatta: «Non c’era acqua tra casa loro e il portoncino della palazzina. Quindi non sono loro». Ma né Schembri né i suoi colleghi (Nico D’Ascola, Patria Morello e Luisa Bordeaux) fanno cenno a una contraddizione evidente: se non c’è sangue lì, dove gli assassini avrebbero dovuto compiere pochi passi, come si può sostenere che la vera via di fuga fosse il balconcino di casa Castagna dove a parte una piccola traccia (compatibile con il racconto di Rosa Bazzi che ha riferito di aver aperto la finestra per respirare) sul pavimento, nulla è stato trovato sulla ringhiera, sul tubo dello scolo, sulla parete quando è legittimo immaginarsi che proprio le mani e il corpo dovevano essere sporchi del sangue delle vittime?
La “manata” dimenticata
Anche l’avvocato Morello si concentra su quella via di fuga, evidenzia la presenza della macchia di sangue sul pavimento del balconcino per dire che qualcuno di lì dev’essere passato, ma opportunamente tralascia – sia lei che il resto della squadra di legali – di dire che sul pomello interno del portoncino d’ingresso i Ris hanno trovato una clamorosa macchia da “manata”, sangue di Valeria Cherubini. E chi può averlo lasciato, se non gli assassini in fuga?
Ma nella prolusione pro revisione, c’è spazio anche per attaccare i “nemici”. E il primo è il luogotenente Luciano Gallorini: «Abbiamo assistito a procedure d’indagine come se Erba fosse un mondo a parte. Queste cose non le ho viste mai altrove» affonda subito l’avvocato Nico D’Ascola. Gli fa eco Schembri: «Noi non indichiamo reati» commessi nel corso dell’indagine dagli inquirenti. «Ma abbiamo indicato dei fatti gravi, delle ammissioni gravi, delle anomalie gravissime che devono essere accertate». E fa l’esempio: «Quando Gallorini andò in dibattimento disse che non fece mai il nome di Olindo a Frigerio: è incredibile». Ma così non andò. Proprio Schembri gli chiese in quel processo: «Il 20 dicembre lei pose questa domanda al signor Frigerio: “lei conosce il signor Olindo, il suo vicino di casa”?». Risposta: «Questo sì».
Sotto attacco finiscono pure Massimo Picozzi, psichiatra che intervistò Bazzi e Romano e il cui video è una conferma clamorosa delle confessioni: «È stato compiuto uno scempio, gli atti di Picozzi sono stati diffusi. Sono comparsi su un libro. Sono andati in giro prima del processo. Questo ha fatto il dottor Picozzi». E poi l’ultimo video di Olindo, che a Picozzi dice che è stato come uccidere un coniglio, in realtà dimostrerebbe come lui non sapesse nulla della dinamica del delitto: ma anche qui gli avvocati si dimenticano di ammettere che su oltre 150 domande rivolte a Olindo Romano, solo 6 hanno riguardato la strage. Perché quello non era un interrogatorio.
Ce n’è anche per l’avvocato Troiano, primo difensore dei coniugi: «L’avvocato d’ufficio di Olindo gli stava portando via tutti i soldi. Ha ricevuto un pignoramento, gli faceva firmare carte in bianco».
Poi c’è il tema delle confessioni. L’avvocato Morello cita un noto penalista per dire che spesso le persone suggestionabili confessano ciò che non hanno commesso. E i coniugi sono suggestionabili. Si è tornato a ribadire - fatto assolutamente indimostrato – che ai due vennero mostrate le foto della scena del crimine. Ma nulla viene riferito su quei particolari che non c’erano nelle foto. Non c’erano nei verbali. E che, nonostante ciò, entrambi hanno raccontato nello stesso identico modo.
Di parole ne sono state dette ed era ovvio che fosse così. Sono stati elencati i dubbi, e - comprensibilmente - omesse le risposte che a quei dubbi ci sono in atti. «Le sentenze non li hanno spiegati i dubbi» chiosa Fabio Schembri. «Li hanno nascosti. Vi chiedo di ammettere i testi e accertare i fatti». Ci sarà da attendere. E molto. Si torna in aula il 10 luglio. Quando si saprà se ci sarà o meno la revisione. Diciassette anni dopo.
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