Sono note, queste, scritte nella tarda – vabbè: tardissima – mattinata. Fossero nate dalla penna nel pomeriggio inoltrato, sarebbero state diverse. Le avremmo trovate di tono più grave, se non gravissimo, perché le nostre giornate hanno un punto di svolta annunciato, implacabile, che riporta l’umore collettivo sotto la linea di galleggiamento. Nelle altre ore, ci sforziamo di farci animo, di sollevare lo spirito, colorarlo d’ottimismo, irrobustirlo con la speranza e scaldarlo con l’ottimismo. Purtroppo, quell’appuntamento ormai fisso rende inutile tanta parte delle nostre volenterose fatiche. Anche oggi alle ore 18, o poco dopo, il capo della Protezione Civile Angelo Borrelli leggerà il suo bollettino: tanti contagi da coronavirus, tanti morti, tanti guariti, tanti in terapia intensiva.
Ci siamo abituati alla sua voce, alla scenografia spartana che lo accoglie, perfino ai gesti qualche volta un po’ convulsi della signora che lo traduce nella lingua dei segni. E ormai conosciamo bene l’effetto che tutto ciò provocherà in noi.
Da quel momento, il nostro animo conoscerà il suo quotidiano precipizio: dapprima farà esperienza del tuffo a caduta libera, quella vertigine disperata che, a volte, ci agguanta nei sogni, poi, in affanno, cercherà un paracadute. Ogni appiglio gli sembrerà buono: soprattutto l’egoismo. Sì, ammette l’animo disperato, ci sono ancora tanti morti ma sono quasi tutti ottantenni o novantenni. Sì, ma avevano malattie pregesse (e tuttavia a essere franchi dovremmo riconoscere che è la vita stessa, quando ormai abbastanza lunga, a essere una malattia pregressa). Sì, ma ci sono più guariti. Sì, ma la nostra provincia non è la più colpita. Sì, ma a Codogno non si ammala più nessuno. Sì, ma in Cina ce l’hanno fatta. Sì, ma in Israele hanno inventato il vaccino.
Questa del bollettino delle ore 18 è una forma di angoscia di massa che, forse, ancora non conoscevamo. Ci eravamo abituati (?) a essere presi per il bavero, di tanto in tanto, dal terrorismo: un picco di ansia e preoccupazione che, con il passar dei giorni, scemava attraverso un rituale collaudato - la rabbia, il dolore, le bandierine e gli hashtag di solidarietà e, infine, il polemicone a Porta a Porta e a Piazzapulita – per tornare a impennarsi alla successiva, feroce mascalzonata.
Il bollettino delle ore 18 è invece sistematico e cadenzato: una tortura programmata, un quotidiano attentato al nostro equilibrio mentale. C’è poco da illudersi: si tratta di un’esperienza che consegnerà alla psiche individuale e collettiva un nuovo fardello da portare. Un bel campionario di ansie, nevrosi, sospetti, paure e complessi del quale, in una società già psicotica di suo, davvero non si sentiva il bisogno.
Intanto, dobbiamo imparare a convivere con il bollettino del virus. Come? Difficile immaginare ci sia una ricetta sicura. I nostri nonni impararono a vivere con i bollettini di guerra e certo non doveva essere meno doloroso leggerli, ogni giorno, sia pure intessuti com’erano di prosa eufemistica (“rettifica del fronte”, “ritirata strategica”, “pressione nemica”), quando in uniforme c’era il proprio figlio o il proprio nipote. Impareremo anche noi, per forza, e forse sarà utile ricordare che, da parte nostra, non c’è molto da fare se non tener duro e rigar dritto con l’isolamento e le precauzioni.
Borrelli non ha il cipiglio di Cadorna e Diaz, non annuncia disfatte o trionfi ma numeri, tanti numeri. Prima o poi - speriamo prima - se ne uscirà con quello giusto, quello che tutti aspettiamo: zero.
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