Alla metà degli anni Settanta anche la scuola elementare di un ridente paesino del basso lago venne investita dall’ondata di novità, modernità e democrazia partecipata partorita da quegli anni che, tanto tempo dopo, un bello spirito definì, senza alcun timore del ridicolo, addirittura “formidabili”.
E fra le tante parole d’ordine propagandate per mettere finalmente la parola fine alla vecchia struttura patriarcale, autoritaria e maschilista della società, della famiglia e dell’istruzione - ovviamente pubblica, quella privata era roba per padroni e beghine - c’era naturalmente l’ora di educazione sessuale. Perché anche il sesso doveva essere liberato dalle pastoie, dai vincoli e dai divieti di una cultura oppressiva e misogina ormai travolta dalla mirabolante rivoluzione sessantottina, dal trionfo del movimento femminista, dalla teologia del “sei politico” per tutti.
E così, nella scuola elementare di cui sopra, un preside particolarmente democratico, progressista e antifascista diede incarico a una maestra particolarmente democratica, progressista e antifascista di istituire un corso di educazione sessuale per gli alunni della classe quinta, con il coinvolgimento di un genitore (donna) particolarmente democratico, progressista e antifascista e del parroco del paese, anche lui, spirito dei tempi, particolarmente democratico, progressista e antifascista. E quando il terzetto si presentò in pompa magna per catechizzare i trenta malcapitati bambini - tra cui anche chi scrive questo pezzo - partì di gran carriera sulla necessità di essere chiari e trasparenti e diretti e dire le cose come stanno e spiegare senza fronzoli come vengono al mondo i bebè, perché nulla doveva essere nascosto, nulla doveva essere omesso, nulla doveva essere tabù.
Poi, però, avvicinandosi al dunque - potenza dei retaggi culturali patriarcali - i tre avevano iniziato a contorcersi, ad alludere, a cincischiare, a insabbiare, tanto che nel giro di qualche minuto sarebbero tornati di gran carriera alle api, i cavoli e le cicogne. A quel punto, l’imbarazzo venne rotto da un colpo di genio del popolarissimo leader della classe, che alla domanda, tremebonda, su quale fosse la differenza tra i bambini e le bambine scolpì nella pietra il seguente immortale aforisma: “Ma è facile! Noi abbiamo il pisello, loro la patata!”.
Nell’aula ci fu un attimo di silenzio. Un silenzio assoluto. Un silenzio magico. Un silenzio di neve. Poi, venne giù la classe dalle risate. Il misto di sorpresa, di vergogna, di scandalo, di scoperta lapalissiana era stato talmente esplosivo (mica eravamo i bambini di oggi…) da far venire la ridarola agli alunni, che non riuscirono più a smettere di sghignazzare e sbellicarsi e smascellarsi e sbudellarsi sulla più semplice e rivoluzionaria delle verità. Il trio venne travolto da quella risata omerica. Il parroco progressista, paonazzo, se la diede a gambe balbettando che doveva preparare le novene natalizie, la mamma femminista si ricordò della partita al circolo del bridge e la maestra rivoluzionaria pensò bene che era meglio riconvertire l’ora di educazione sessuale nella declamazione delle gesta dei partigiani, delle canzoni degli Inti Illimani e del teatro alternativo in calzamaglia, inseguita da un ruscello di risa gorgoglianti. Tutto vero.
Ora, visto che l’Italia non teme rivali al mondo nel trasformare le tragedie in pagliacciate, con ogni probabilità anche lo spassoso progetto di “Educazione alle relazioni” da istituire nelle scuole per evitare i femminicidi dopo quello di Giulia (il dramma che diventa farsa, appunto…) farà la stessa identica fine. E infatti basta vedere le polemiche da cortile dopo la nomina nel comitato delle garanti del progetto, da parte del ministro Valditara, dell’attivista dei diritti civili Lgbt Paola Concia, che avrebbe dovuto affiancare un’avvocatessa e una suora (ma allora perché non ingaggiare pure una fisica nucleare, una cubista, una glottologa, una mondina, una donna barbuta, un’archeologa, un’influencer, una velina?), per capire che eravamo in pieno vaudeville. E infatti è già saltato tutto.
La destra dal golfo mistico sovranista ha tuonato contro il suo ministro perché con la Concia, che è pure abortista, si sarebbe picconato il sacro istituto della famiglia tradizionale, la sinistra ha ululato dal suo kolchoz modaiolo contro la destra perché il comitato sarebbe stato composto solo da codini, passatisti, antiabortisti, e lei è ideologico e ideologico sarà lei, e lei è autoritario e autoritaria sarà sua sorella (frase in effetti piuttosto sessista…) e lei non sa chi sono io e io le spezzo le reni e tutto il resto della consueta pagliacciata con cui governo e opposizione condiscono la sbobba nel loro truogolo di demagogia, dilettantismo e nessun senso del ridicolo.
Però la cosa ancora più ridicola è questa continua smania di inventarsi commissioni e comitati e bicamerali per dirimere argomenti che nulla hanno a che vedere con certa paccottiglia, a cui danno credito solo i giornali. Che vuoi insegnare a scuola? Come ci si comporta con le ragazze? A scuola? E come si rispettano le donne? A scuola? Cos’è, una materia di studio? Poi danno pure il voto? Si leggono le pagine più edificanti di “Cuore”? Siamo all’Asilo Mariuccia? Siamo a una seduta di autocoscienza? A un’occupazione liceale? In un film di Nanni Moretti? Ai servizi sociali? Agli alcolisti anonimi, ciao, mi chiamo Giuseppe e sono venti giorni che non manco di rispetto a una donna? E poi, a che servono questi cosiddetti esperti? Perché abbiamo tutta questa ansia compulsiva di eliminare padri e madri, di soppiantare i genitori dal loro ruolo, questo sì dirimente, dell’educazione e della formazione del carattere, della personalità e della cultura dei loro figli?
C’è la famiglia, c’è l’individuo, c’è l’esperienza della vita. È questo ciò che serve, non di certo l’ennesima pagliacciata dell’Educatore Collettivo Moralista. A ripensarci, si stava meglio ai tempi delle cicogne…
@DiegoMinonzio
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