Dietro il dolore
condiviso sui social

Si dice che uno dei mali di questa epoca è aver cancellato la morte dall’orizzonte mentale dell’uomo comune. La sua presenza, il suo incombere, la sua fisicità livida e opprimente è stata espunta dal nostro quotidiano, dalle nostre abitazioni: si muore all’ospedale o all’hospice o in casa di riposo, generalmente nascosti. La morte non si vede, della morte non si parla. Spaventa i bambini.

Conseguenza dei periodi di pace e benessere troppo lunghi, si dice, anzi, del più lungo periodo di pace e benessere, almeno nell’occidente, della storia dell’umanità. E’ naturale che nel momento in cui la vita quotidiana non è più angustiata dalle pulsioni base che l’hanno segnata per secoli - sopravvivenza, fame, sete, violenza - tende a rimuovere tutto quello che non è coerente con la civiltà del weekend, degli aperitivi, delle vacanze, dello star bene. Ma nel momento in cui espelli la morte dal tuo orizzonte di pensiero è ovvio che stai costruendo un’esistenza non più naturale, non più conscia della parabola spietata che ci coinvolge tutti e quindi rischi di perdere il senso stesso del vivere, il suo significato profondo, e così subentra la noia, l’alienazione, la depressione. L’esperienza della guerra, ad esempio, è da questo punto di vista paradossalmente salvifica, perché spazza via tutta la fuffa di cui sono fatte le giornate del piccolo borghese adiposo che alberga in noi e ti riconnette alle radici primordiali dell’esistere: non si è mai attaccati così tanto alla vita come quando si fa l’esperienza fisica della morte. Lo scriveva anche Ungaretti in quella celebre poesia, non è così?

Bene, la cancellazione, la rimozione, la smaterializzazione della fine o comunque della malattia grave, quella di cui non si deve e non si può parlare perché guasta l’eterna felicità del mulino bianco a cui tutti quanti aspiriamo nel migliore dei mondi possibili, è stata però sbugiardata dall’avvento tumultuoso dei social, che anche in questo campo hanno cambiato le carte in tavola. In questi anni abbiamo visto riemergere prepotentemente la visione della morte e della malattia proprio sui media più diffusi nel mondo, da Facebook a Twitter, da Instagram a TikTok. Ad esempio, nella recente confessione pubblica di Fedez, un vero e proprio idolo dei social, che ha parlato della grave patologia che l’ha colpito, così come, passando a un livello culturale più alto, in quella di Alessandro Baricco a proposito della sua leucemia o, tornando sul pianeta del pop, in quella di Jovanotti per il linfoma della figlia. E questi sono solo i casi più recenti, se ne potrebbero citare a decine.

Ora, l’argomento è delicatissimo, ai limiti dell’indicibile, e quindi bisogna stare ben attenti a quello che si pensa e, soprattutto, a quello che si scrive. Però c’è una domanda che dobbiamo porci. Stiamo assistendo a un “sano” ritorno della morte o comunque della sua presenza, del suo avvicinarsi, della paura che ci incute? Abbiamo finalmente capito, dopo decenni di bisbocce consumistiche, edonistiche e narcisistiche, che è quella cosa lì che dà un senso a questa cosa qui, e che questa cosa qui senza quella cosa lì non avrebbe alcun significato? Anche se proprio quella cosa che dà senso alla nostra vita, rimane comunque insensata perché ingiusta, inaccettabile, intollerabile, incomprensibile? Insomma, stiamo tornando seriamente a riflettere sul grande mistero, il grande ribaltamento, il grande momento che ci fa diventare matti da millenni? Oppure è un’altra cosa? E se sì, quest’altra cosa è bene o è male?

Se fosse argomento limitato solo a vip, star e celebrità planetarie, poco ci importerebbe - al netto della sacralità della malattia, che è sacra per tutti - visto che sembra addirittura un perverso gioco di società. Ma quando vedi sempre più spesso, scorrendo i tuoi profili social, foto e immagini e video di persone comuni, soggetti assolutamente sconosciuti, nel loro letto di ospedale, durante una seduta di chemio, con in mano un referto, con le loro parrucche e le loro bandane e le loro occhiaie violacee, la domanda angosciata e angosciante che ti poni è sempre la stessa. Perché? Perché abbiamo improvvisamente bisogno di condividere con i nostri cento, mille, diecimila follower questa cosa, anche questa cosa? Perché abbiamo paura? Perché ci sentiamo soli? Perché, passati i cinquanta, ogni Tac e ogni Risonanza, anche se di semplice screening, la vivi come una roulette russa? Perché crediamo veramente che i nostri mille follower, in larga parte gente che manco conosci o hai incrociato una volta per caso e con la quale non hai alcuna confidenza, siano tutti solidali e attenti e partecipi e commossi dal tuo dramma? Davvero lo pensiamo? Mille persone che si commuovono per te? Davvero? Quei mille amici sono davvero amici?

Forse è un esorcismo, forse è una sfida, un’irrisione del nemico, forse - e ci si vergogna a scriverlo, perché non può essere così - è la più estrema delle esibizioni di narcisismo. Forse è l’umanissima speranza di essere importanti per qualcuno o, meglio ancora, per tanti. Forse i loro post, alcuni toccanti, altri banali, altri grondanti di retorica, di insopportabile retorica farisea, ti danno comunque forza, e se è così, allora vanno bene a prescindere. Ma come mai allora dei tuoi mille follower poi in ospedale vengono a trovarti solo in tre? E come mai, una volta passato il minuto di sentita partecipazione al tuo dolore è già ora di passare alla sentita partecipazione del dolore del follower successivo?

Non c’è qualcosa di assurdo, di grottesco, di osceno in questa cosa? Anche questo, anche il più sacro dei momenti è destinato a diventare argomento di conversazione sui social, assieme al prosecco in riva al lago, alla torta di compleanno di tuo nipote, all’odioso sicofante che sparla in ufficio, al gatto che fa le fusa sul divano? E’ tutto uguale? E’ tutto così disperatamente uguale?

Si nasce soli, si muore soli, diceva quello là. Forse sarà meglio ricordarselo, quando verrà il momento.

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