Calma e gesso. La fase 2 è in costruzione e le novità verranno entro il 3-4 maggio. Senza fughe in avanti e velleitari protagonismi territoriali. L’opinione pubblica, percorsa dal più totale smarrimento, ha una sola certezza: difendere la propria salute. Il fronte interno agisce come un vincolo per le istituzioni, insieme a quello di graduare e scaglionare la ripresa produttiva. Valutando con ponderazione i pro e i contro, i rischi di un effetto ritorno del virus, la verifica all’appiattimento della curva dei contagi verso il basso, i limiti di analisi ancora non su dati reali e con troppe informazioni che mancano. Meno difficile chiudere che riaprire. La fase 2 è intestata al governo ed è sua responsabilità: in democrazia ne risponde ai cittadini la politica, non la scienza. Questa può e deve comporre il quadro a più voci, suggerire ed orientare ed è bene che sia così, come sta avvenendo.
Tuttavia la scelta – il come, il quando, il perché – tocca a chi governa. È lo Stato che può e deve decidere anche tenendo conto delle diverse esigenze delle singole realtà territoriali, che però trovano un limite nel quadro normativo che compete appunto allo Stato centrale. Consapevolezza che non dovrebbe sfuggire a personaggi come Fontana (Lombardia) e De Luca (Campania), per citare i casi in libera uscita. In questa fase drammatica il governo vive contraddizioni più accentuate rispetto alla fase 1, peraltro non finita (stando almeno alle valutazioni di alcuni esperti).
L’alluvione dei decreti del presidente del Consiglio (prassi d’urgenza ma anomala), spesso incomprensibili e sovrapposti alle direttive regionali, hanno creato disorientamento. Il Parlamento, nel frattempo, è stato messo ai margini. Babele legislativa e di opinioni: si contano 15 task force con oltre 450 esperti delle varie discipline, più altri 30 gruppi di lavoro a livello locale. Mai come ora la collaborazione dei tanti saperi è decisiva, tuttavia l’effetto confusione può risultare evidente e soprattutto paralizzante. Non sarà facile venirne a una, estrarre il possibile, non il meglio, in quello che sul piano economico e sociale sarà uno choc tremendo. Nel mentre il tempo non dà tregua, ma non sempre è un saggio consigliere. Poi c’è il fronte regionale con tante piccole repubbliche arrabbiate e gelose, ciascuna per sé, dove la vicinanza ai bisogni più sentiti si accoppia alla rivendicazione politica, nella logica vincenti e perdenti. L’autonomia si trasforma in caos tra frenate ed accelerazioni, un’indisciplina generata dall’infelice riforma del 2011 e che l’epidemia sta rendendo una mina vagante. Con certezze ed eccellenze messe a dura prova: vedasi la Lombardia, scopertasi quasi completamente sguarnita sul fianco dell’assistenza sul territorio. E infine la partita europea che si decide il 23 e divenuta uno psicodramma per le contorsioni grilline, là dove Prodi, Pd e lo stesso Berlusconi hanno indicato un consenso largo per il Fondo salva Stati.
Il governo, al di là della somma di incidenti comunque non irrimediabili, è destinato a durare: per l’impraticabilità delle alternative, perché in ogni caso Renzi vuole essere un soggetto della ricostruzione e perché una parte consistente dei Cinquestelle si ritroverebbe a piedi in caso di elezioni anticipate.
Fin qui il premier Conte, fra qualche acuto e talune stonature, ha tenuto la barra in quel che meglio gli riesce: la mediazione. Non basta in tempi straordinari: ai cittadini, nell’ora più buia, serve la garanzia di una voce sola e autorevole, un leader affidabile che porti fra le pareti domestiche il senso della tragedia e l’orgoglio del riscatto.
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