La storia dei figli dei lavoratori stagionali svizzeri lasciati nei collegi di Como

Numeri e voci La legge elvetica dal 1949 al ’75 vietava ai genitori di portare con sè oltreconfine i figli. La maggior parte erano italiani.

Erano un migliaio solo al Don Guanella, ma tanti ne sono stati accolti per decenni anche in diverse altre strutture in città come a Lora, a San Fermo e a Cantù.

Erano i figli negati dei lavoratori stagionali in Svizzera, che la legge elvetica dal 1949 al ’75 vietava ai genitori di portare con sè oltreconfine. La maggior parte erano italiani.

La soluzione? Farli comunque espatriare e tenerli in clandestinità, finchè erano molti piccoli, o affidarli alle cure dei nonni al paese di origine. Poi, in età scolare, metterli in un collegio, per lo più religioso, in Italia, sul confine, per averli più vicini. È successo a Como ma anche a Varese, a Domodossola, lungo tutta la fascia di confine.

I numeri

Lo studioso Toni Ricciardi dell’Università di Ginevra, intervistato nell’inchiesta “Figli proibiti” del giornalista ticinese Mariano Snider trasmessa giovedì da Rsi, che ha raccontato questa storia, quantifica in più di 550mila il numero di bambini e ragazzi coinvolti nei 26 anni di vigenza della norma, 48-70mila dei quali vissuti in clandestinità in Svizzera, spesso accolti da famiglie del posto quasi come propri.

«L’inchiesta è nata anni fa, mentre lavoravo a un servizio sugli internati amministrativi in Svizzera, persone problematiche che venivano internate con un provvedimento dell’autorità - racconta Snider - Fra quelli di cui mi occupai c’erano casi di figli di lavoratori italiani stagionali separati dalla famiglia».

Il Don Guanella di Como, oggi casa di riposo e centro d’accoglienza per stranieri, in quegli ospitò tantissimi di questi ragazzi: «Almeno un migliaio» racconta Giovanni Antenucci, 64 anni, arrivato in via Grossi a 11 anni perché i genitori molisani dovevano lavorare a Basilea e poi, dopo gli studi, rimasto come assistente del doposcuola. Oggi Giovanni vive a Vertemate e come presidente dell’Associazione ex allievi e amici del Don Guanella e conserva i libri mastri con i nomi e l’origine dei ragazzi che hanno frequentato il collegio dal 1970 al 1985. Da lì è partito Snider per cercare le testimonianze comasche dei “figli proibiti”.

Sono storie sempre drammatiche, quanto può esserlo per un ragazzino essere lasciato in un collegio e vedere i genitori una volta all’anno. Chi si racconta nel servizio andato in onda sulla tv svizzera parla spesso con le lacrime agli occhi.

Ma c’è anche chi, raccontando di altri istituti, in particolare di Domodossola, riferisce di maltrattamenti, botte e veri e propri abusi.

«Non era certo la situazione al Don Guanella - tiene a precisare Antenucci - Giusto non dimenticare quello che è successo a causa di una politica svizzera di esclusione dello stranieri, ma nel nostro istituto c’era tutt’altro ambiente. La lontananza dai genitori l’abbiamo sofferta tutti, ma non abbiamo trovato quella durezza di cui parlano altri. Certo erano altri tempi e era un altro il concetto di educazione dei ragazzi, ma rispetto a quello che raccontano gli altri la nostra era un’isola felice».

Le situazioni difficili però erano tutt’altro che rare. «C’erano talmente tanti bambini - dice Mariano Snider - e pochi assistenti, peraltro senza formazione, facile immaginare come la situazione potesse sfuggire di mano. Al Don Guanella alla metà degli anni Settanta chiamarono don Angelo Gottardi, con il quale ho parlato ma che non ho inserito nella trasmissione, per cercare di portare un po’ di modernità in questa istituzione. Era giovane, anche lui era stato in collegio e si mise nei panni di questi ragazzi».

«Vita spartana»

«C’erano sei sezioni - ha raccontato Giovanni Antonucci alla tv svizzera - un numero mastodonitico di ragazzi. La vita era spartana e severa, non c’era possibilità di uscire dall’istituto se non accompagnati da un sacerdote». «Una solitudine interna inspiegabile, a mia mamma e mio papà non l’ho mai detto non gli ho mai dato questo pensiero», ha aggiunto.

Anche Carlo Costantino, figlio di emigrati dalla Campania, ha trascorso cinque anni in un collegio a San Fermo e altri tre al Don Guanella, e come lui Antonio Venerito, rimasto dapprima con i parenti in Puglia - «Ho sempre sentito il calore di tutti quelli che mi hanno accudito, una fortuna nella sfortuna», ha raccontato in tv - e poi inserito al Don Guanella. Anche per lui la ferita di quella separazione è ancora viva.

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