I nostri politici e la loro cultura

Nei giorni del blackout informatico che ha messo in ginocchio molti aeroporti in tutto il mondo, c’è stata la polemica su Salvini, il cui volo da Roma a Milano sarebbe stato “graziato” e partito puntuale. Da lì è scaturito un “meme”, (come si chiamano oggi alcuni tipi di pubblicazioni sui social media, sia detto a beneficio delle chiome brizzolate che leggono questo giornale) di non grandissimo gusto sul fatto che allora è vero che “gli asini possono volare”.

Al di là della povertà dell’episodio in sé ci potrebbe essere qualche ragione politica su cui riflettere. Nell’esecrata quanto rimpianta Prima Repubblica, infatti, non c’era la possibilità di prendere in giro e insultare i politici in forma digitale. Ma le offese e gli “sfottò” non mancavano. Fin dagli anni che hanno seguito la fine della Seconda guerra mondiale si potevano trovare manifesti (quella era la principale forma di comunicazione visiva perché anche la tv era al di là da venire) che definivano gli avversari “forchettoni”, nel senso che, secondo gli accusatori, si divoravano le risorse pubbliche.

E anche nei dibattiti pubblici non facevano difetto allusioni più o meno velate, sull’onestà dei gruppi dirigenti pubblici, sulla loro moralità nelle faccende private o a proposito della sudditanza agli Stati Uniti, per quanto atteneva alla Dc e ai suoi alleati o all’Unione Sovietica a per quanto riguardava il Pci e, prima dell’invasione dell’Ungheria da parte di Mosca nel 1956, anche il Psi.

Non mancava neppure il “body shaming”, oggi giustamente bandito. L’immenso Giovanni Guareschi, nelle sue vignette sul settimanale “Candido” disegnava gli esponenti del partito comunista con tre narici nel naso, da qui la definizione di “Trinariciuti” per sottolineare la loro presunta scarsa elasticità mentale.

Alcuni anni dopo, con i social che comunque neppure erano stati immaginati, uno sfottò definiva gli esponenti della Dc “Piccoli, Storti e Malfatti”. Il riferimento era a Flaminio, figura eminente del partito, a Bruno, sindacalista e segretario della Cisl e a Franco Maria, ministro della Pubblica istruzione (allora il dicastero era così definito) e poi presidente della Commissione europea. Insomma, mica tre “peones”, ma esponenti di primo piano della “Balena Bianca”.

Però, è qui casca l’asino (non nel senso di quello che vola), queste insinuazioni che andavano ben oltre il “politicamente corretto”, peraltro ancora da inventare, non mettevano mai in discussione, neppure per scherzo, le capacità intellettuali e la cultura dei rappresentanti delle istituzioni. Perché era accertato e riconosciuto da tutti che, per ricoprire una carica, anche quella di consigliere comunale di un medio centro, occorresse una solida preparazione.

Oggi, al di là della deriva a cui ci ha portato la comunicazione digitale, ma non solo per questa, non è più così. Al di là del caso specifico di Matteo Salvini che certo la preparazione l’ha maturata sul campo essendosi occupato di politica dal tempo in cui portava i calzoni corti, sembra essere diffusa nella società anche l’idea che i nostri rappresentanti non siano all’altezza dei loro compiti. Il che autorizzerebbe ad appellarli non solo con gli epiteti del passato legati alla condotta morale, anche per la loro inadeguatezza intellettuale e conoscitiva. Le tante “perle” sciorinate dal ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, dalla collocazione geografica di Times Square in avanti potrebbero rappresentare solo la punta dell’iceberg.

E la causa è la scomparsa dei partiti, che prima di Mani Pulite, erano certo un ricettacolo di immoralità, ma anche una scuola che sapeva preparare e selezionare il ceto politico. Adesso non è più così e forse non lo sarà mai più. E le domande che restano inevase sono: ce la faranno i nostri rappresentanti, con il loro background culturale, a risolvere la complessità dei problemi che la realtà attuale propone? Il dubbio che resta sospeso può essere una delle cause della crescente disaffezione al voto?

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