In una pagina formidabile di “Illusioni perdute”, fluviale romanzo che con tutta probabilità rappresenta il suo vero capolavoro, anche più di “Papà Goriot”, “Eugénie Grandet” e “Splendori e miserie delle cortigiane”, Honoré de Balzac – che era un genio – marchia con parole di fuoco il mondo dell’editoria.
Siamo nella parte centrale del romanzo, quella nella quale il protagonista, Lucien Chardon, il classico provinciale giovane, bello, povero e sprovveduto, arriva a Parigi sull’onda di ideali, fantasie e aspirazioni poetiche e si scontra con la realtà infida, avvelenata e fanghigliosa di quella sentina dell’arrivismo, dell’intrigo e del tradimento che è la capitale. I suoi sogni sono destinati a svanire, le difficoltà economiche e l’invidia nei confronti di chi ce l’ha fatta fanno svaporare la sua superficie angelicata a favore di un sottofondo di vanità, lussuria e ambizione – Balzac marchia con parole terribili il suo ingordo carrierismo – e quindi Lucien impara velocemente che cos’è l’editoria nella realtà e cos’è soprattutto il giornalismo. Un suk basato sul nulla, sulle notizie false, sulle notizie pilotate, sulle notizie manipolate, sulla diffamazione strisciante o plateale, un mercato popolato da papponi e mestieranti nel quale le recensioni sono in vendita, le interviste sono in vendita, le linee politiche sono in vendita, le carriere sono in vendita, dove tutto è in vendita e dove tutto è una buffonata, una pagliacciata, una cialtronata. Profetico, riletto due secoli dopo e pensando ai media di oggi.
E’ proprio per questo che Balzac fa dire al principe degli editori parigini che “un libro si pubblica solo e soltanto se l’autore ha un volto noto o se, perlomeno, ha un nemico famoso”. Il contenuto non conta. Il contenuto non conta niente. Il contenuto non esiste. Ci vuole una faccia celebre, un antagonista potente e occhiuto da sbandierare ai quattro venti e una bella polemica organizzata a tavolino. Tu attacchi me che attacco te che attacchi lui che attacca me. Vi fa venire in mente qualcosa o qualcuno, putacaso?
Bene, se l’insegnamento balzacchiano è valido anche oggi - e ai tempi non c’erano né la televisione né i social… - allora si capisce il senso, ma soprattutto lo spessore della grottesca vicenda del generale Vannacci e dei suoi clamorosi successi editoriali, prima con “Il mondo al contrario” e poi con “Il coraggio vince”, e probabilmente in un prossimo futuro anche dei suoi trionfi politici. Niente di male e niente di pericoloso, per carità. Basta che si utilizzi la chiave di lettura giusta per analizzarlo. E quindi partiamo dai contenuti. Che però, come scriveva Balzac, non contano niente. E’ del tutto indifferente che il suo libro abbia un valore culturale oppure no (di valore ne ha pochissimo), che dica cose di destra o di sinistra (forse né una né l’altra: più che di “destra”, che nei paesi seri è una cosa seria, qui stiamo parlando di qualunquismo da Bar Sport), che sia scritto bene o male (diciamo che siamo a livelli di terza media). Qui l’unica cosa che conta è che il volto sia noto, visto che è un anno che passa da una televisione all’altra, da un media all’altro, da una presentazione all’altra, da una mega intervista a (una volta) autorevoli quotidiani a un’altra. E l’altra cosa che conta è che il generale abbia un “nemico famoso” e cioè la cosiddetta stampa di sinistra, la cosiddetta cultura da terrazza, la cosiddetta congrega da salotto, e poi i poteri forti, il politicamente corretto, il gender fluid, l’ideologia antinazionale e antipatriottica e bla bla bla.
Ma, attenzione, questa roba non riguarda certo solo Vannacci. In fondo, se ci pensate, con la Murgia, e stiamo parlando del fronte opposto, non è successa la stessa identica manfrina? Un volto noto (era sempre in televisione), un nemico potente (i fascisti, i razzisti, i maschilisti, i generali cattivi, i padroni ancora più cattivi, i politici cattivissimi) e tutto il resto del qualunquismo, questa volta di sinistra, e delle scempiaggini che hanno fatto galleggiare la povera Murgia sulle ali di un successo mediatico che, anche nel suo caso, non aveva nulla a che fare con i contenuti. Al Circo Barnum della repubblica delle banane non esiste alcuna differenza tra destra e sinistra, questa è la verità.
Ecco, se la chiave di lettura non è culturale, ma circense, allora va bene, allora tutto torna e tutto garantisce la godibilità dello spettacolo. Venghino, siori, venghino: Vannacci che è un cattolico di quelli di una volta, Vannacci che è un pezzo d’uomo, Vannacci che ha rischiato la fucilazione in Africa, Vannacci che ha rischiato il linciaggio sempre in Africa, Vannacci che ha rischiato la lapidazione ancora in Africa, Vannacci che butta il cuore oltre l’ostacolo, Vannacci che d’altra parte se una è negra è negra, Vannacci che svela le trame della lobby gay, Vannacci che sbugiarda le ideologie woke e green, Vannacci che difende la famiglia tradizionale, Vannacci che Mussolini era uno statista ma anche Stalin (e Lollobrigida?), Vannacci che le canta al consumismo, Vannacci che le canta a lorsignori, Vannacci che le canta pure alla Meloni che è carismatica ma forse lui è meglio, Vannacci in vestaglia, Vannacci con lo scolapasta in testa, Vannacci che guarisce la scrofola e la disforia con l’imposizione delle mani, Vannacci che accarezza bambini biondi, Vannacci che invade la Polonia, Vannacci che, parafrasando il Fellini di Amarcord, “cià due coglioni così!”.
Con tutto il contorno di nani, ballerine, dirigenti inamidate dell’Associazione Vedove Cattoliche, reduci impagliati di Curtatone e Montanara, contrammiragli in pensione, ex starlette di colore in disarmo che la Egonu sbaglia a querelarlo e, soprattutto, magistrati a loro volta a caccia di visibilità, che aprire un’inchiesta per odio razziale su uno che professa delle idee è una roba che può venire in mente solo ai magistrati. Le idee sono sacre e quindi non si processano. Neppure quelle di Vannacci. Anche se non ne ha.
© RIPRODUZIONE RISERVATA