Roberto Maroni si congeda proprio il giorno in cui Matteo Salvini, suo successore alla guida della Lega che ha perso la parola “Nord” nella sua ragione sociale, annuncia che chiederà all’Unione europea uno stanziamento per realizzare il ponte di Messina. Si sa che tutto si tiene. Ma l’ultimo blues, triste come possono essere solo i blues, di “Bobo”, sembra davvero la sigla finale su quello che era il movimento inventato da Umberto Bossi, anch’egli malmesso e in ospedale, per tutelare gli interessi delle popolazioni del Nord, con buona pace del ponte sullo Stretto.
Maroni diceva, a ragione di essere la “mamma” della Lega visto che il Senatur nel rivendicava la paternità. Ed è persino inutile rievocare i tempi in cui le latte di vernice che i due utilizzavano per imprimere slogan nordisti sui cavalcavia delle autostrade, si rovesciavano nella 500 messa a disposizione dalla madre del futuro ministro degli Interni. Non era un legame facile quello tra Bossi e Maroni, anzi. Ma solido sì. Tant’è che l’allora capo indiscusso del Carroccio, che aveva l’espulsione facile dei dissidenti, decise di perdonare il suo braccio destro che non condivideva la sfiducia al primo governo Berlusconi, di cui Bobo fu, appunto titolare del Viminale, il primo non dc dalla nascita della Repubblica.
Gianfranco Rotondi, un post democristiano, ha detto ieri che Maroni è stato il miglior ministro della Seconda Rupubblica. Di certo ha interpretato il ruolo con scrupolo, passione, intelligenza politica, competenza e moderazione, quella che era un tratto del suo carattere di “Barbaro gentile”. Che però non si fece scrupoli nel denunciare il malaffare che stava infestando la Lega con la famosa manifestazione delle ramazze per fare pulizia, condivisa da Bossi solo in un secondo momento.
Maroni era certo il leghista più amato dalla sinistra, forse perché in gioventù era stato vicino a Democrazia Proletaria. Per Roberto Saviano è stato un buon ministro degli Interni e ogni volta in cui si favoleggiava di un avvicinamento del Carroccio alle forze post Pci si guardava a lui, anche se alla fine, l’unica volta in cui i due partiti hanno marciato assieme contro il Cavaliere, non era d’accordo.
Così come non era del tutto convinto della deriva secessionista, a cui preferiva il federalismo e l’autonomia, tant’è che aveva indetto il referendum ai tempi in cui guidava la Regione Lombardia. È stato lui a creare il fortunato quanto ora in disuso slogan della Lega “Prima il Nord”. In uno dei suoi ultimi scritti aveva invocato un moderato alla guida della Lega dopo la debacle delle ultime elezioni politiche. Con Salvini non si prendeva molto ed è chiaro che pensasse a Luca Zaia. L’unica sua pecca è la riforma della sanità lombarda.
Se n’è andato nella sua Varese, da cui era partito tanti anni fa per una più che lusinghiera carriera politica che lo ha portato alla vice presidenza del Consiglio dei ministri e alla guida della Lombardia dopo Formigoni. Avrebbe voluto concludere come sindaco della città, ma il male che lo ha colpito non gli ha consentito di candidarsi. Le attestazioni “bipartisan” di cordoglio sono certo il miglior modo di ricordarlo.
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