Il dilemma dei 5 Stelle: scomparire o adeguarsi

Azzardiamo una (facile) previsione: all’Assemblea costituente di ottobre, che si annuncia come il momento della resa dei conti interna al M5S, Conte sbaraglierà Grillo. L’avvocato del popolo ha in mano un jolly vincente: l’annullamento del divieto dei due mandati. Tenuto conto che alle votazioni dei Cinquestelle partecipa ormai poco più dello stretto giro degli aficionados, sarà gioco facile per i parlamentari in carica, interessatissimi - et pour cause - al terzo mandato, far trangugiare il rospo ai militanti. Incombe, peraltro, sulla votazione il sospetto – anche di Grillo – che la consultazione avvenga, non col rispetto della vantata democrazia diretta, ma secondo una prassi - che il Garante stesso insinua consolidata -propria della democrazia diretta, ma dall’alto. È tanto vero che ha chiesto garanzie su “iter e modalità” perché sia garantita “parità di accesso e partecipazione”. Una ragione in più per considerare scontato il risultato dell’assise. Il M5S consumerà, così, il passaggio da movimento a partito, dal Vaffa al ministerialismo, dalla aleatoria democrazia diretta ad una più concreta investitura dell’attuale leader a capo insindacabile.

È destino che le forze antipartito, una volta messo piede in parlamento, siano risucchiate dal sistema. A quel punto o si istituzionalizzano o si disgregano. È successo al poujadismo, il movimento di rivolta fiscale sviluppatosi in Francia alla metà degli anni Cinquanta per iniziativa di Pierre Poujade, e in Italia all’Uomo qualunque. Il suo animatore, Guglielmo Giannini, anch’egli – come i Cinquestelle, in rivolta contro “l’arrivismo spudorato dei mestieranti della politica” - era riuscito a creare dal nulla in soli due anni (tra il 1944 e il 1946) una forza che al Centro-Sud insidiava il primato della Democrazia cristiana. Nell’autunno del 1947 decise di sostenere la mozione di sfiducia al governo De Gasperi presentata dalle sinistre e di colpo si ritrovò abbandonato dai suoi, poi confluiti in massa nella Dc. Fine della storia.

Anche per il M5S è arrivato il momento della verità: decidere cioè se restare fedele alle origini (e presumibilmente scomparire) o integrarsi nel sistema (e diventare un partito come gli altri). Per il suo presidente si tratterebbe semplicemente di prendere atto delle mutate condizioni politiche. In realtà, il ragionamento che sottostà all’operazione è molto più concreto. Visto che il parlamento non lo si può - e, comunque, non conviene a chi vi si è accomodato - aprire come una scatola di tonno, molto meglio restarvi accomodati. Conte non è un idealista alla Gianroberto Casaleggio. È un realista, per di più senza ideali: sta realizzando – parola di Paolo Flores d’Arcais – “il qualunquismo di Grillo in chiave democristiana”. Tenersi le mani libere sul programma gli dà il vantaggio di poter sfruttare ogni situazione: un giorno va a destra (governo giallo-verde), un giorno a sinistra (governo giallo-rosso), un altro ancora all’estrema sinistra (nel parlamento europeo ha scambiato il destro Nigel Farage con l’estremista di sinistra Carola Rakete). Domani si vedrà. Ciò nonostante, si permette anche di dare lezioni di coerenza. A Grillo di aver promesso la democrazia diretta e poi di volersi comportare da Elevato sopra ogni regola democratica. A Renzi di aver flirtato con la Meloni fino al giorno prima e di proporsi poi a leader della sinistra.

Le intemerate dell’“avvocato del popolo” non sono frutto di un moto di ribellione verso comportamenti ritenuti immorali. Sono prese di posizione utili a sviluppare una precisa strategia politica. Mira, prima ad assicurarsi un pieno controllo del partito per procedere poi a cercare di azzoppare la Schlein. Amputare il campo largo della componente centrista è il solo modo per ridare slancio alla sua ambizione, mai dismessa, di affermarsi come leader del “campo largo”. Il veto opposto a Renzi è il suo lasciapassare per non finire – spera - junior partner del Pd.

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