C’era un tempo in cui le notizie erano di tutti. In cui si alzava il telefono e si poteva parlare con l’attaccante appena arrivato al Como, il medico in prima linea in pronto soccorso, il poliziotto intervenuto a fermare un rapinatore, il dipendente comunale impegnato in un progetto per la città. Un tempo nel quale i fatti accadevano e potevano essere raccontati. Perché un avvenimento è di tutti. E non una questione privata e riservata.
In quel tempo un personaggio come Cesc Fabregas non avrebbe dovuto attendere tre mesi per poter parlare e, di certo, non si sarebbe posto il problema dell’autocensura, impedendo a sé stesso di rivolgersi direttamente ai tifosi comaschi, attraverso la stampa locale. Erano i bei tempi in cui a dettare i ritmi delle notizie era la quotidianità, non certo il calendario degli uffici stampa.
Urge una precisazione, prima di proseguire. Ciò che segue non vuole assolutamente essere una difesa d’ufficio della categoria (anzi, per certi versi è proprio l’opposto). Piuttosto è un grido d’allarme che dovrebbe riguardare tutti. Perché essere informati è un diritto e vale in ogni campo, dal più ludico al più serio. Sembra un paradosso, ma nell’era dell’informazione in tempo reale e via social, la vera informazione rischia di fare la fine dell’elefante di Sumatra: estinguersi.
Da diversi anni si assiste a una rincorsa spasmodica alla velina, sottoforma di video autoprodotti su facebook o di comunicati stampa autocelebrativi e, sostanzialmente, di una inutilità disarmante. Sembra di essere tornati al 1937 quando la notizia di una gara ciclista veniva proposta così, agli italiani: “Al via dato dal quartogenito del Duce, Romano, alla presenza di donna Rachele Mussolini, 61 concorrenti sono scesi in lizza sul Circuito delle camminate per il Gran Premio del Duce…”. Ma l’Istituto Luce, l’ufficio di propaganda del Ventennio fascista dove si spacciavano per notizie pillole di inutilità, è un archivio storico e non dovrebbe essere un modello da seguire. E invece…
L’ultimo episodio di un’allarmante disinformazione arriva dal Calcio Como, la società che ha dato vita alla fondazione Como4Como che si vanta di lavorare “per il sostegno del territorio comasco”, ma che per tre mesi ha nascosto ai supporter lariani il suo acquisto più blasonato. Per mesi, quotidianamente, abbiamo chiesto di poter parlare di Como e del Como con Cesc Fabregas e per mesi gli strateghi della comunicazione azzurra hanno posto il veto a ogni richiesta. Fino a quando non si è deciso di concedere a Dazn l’onore di accendere i riflettori sull’ex campione del Barcellona. Risultato? Si è parlato di tutto, tranne che di Como. E, giustamente, voi direte: poco male. E, forse, si potrebbe liquidare così una vicenda apparentemente di poco conto. Non fosse che lo stesso copione, ormai, è usato da ogni istituzione: privata o (peggio) pubblica che sia. I politici preferiscono, all’intervista, i monologhi social, privi della scocciatura di poter essere contraddetti quando affermano falsità. Le forze di polizia chiudono un locale per aver violato norme di igiene? “Non possiamo dire nulla, perché la comunicazione è stata avocata da…” è la risposta (aggiungete al posto dei puntini, a vostro piacimento: ufficio stampa, dirigenza, prefettura, questura, comando carabinieri, comando generale, procuratore capo). Il fatto è che quella notizia, quell’informazione, non è di proprietà degli uffici stampa, bensì di tutti i cittadini. L’articolo 21 della Costituzione, che sancisce la libertà di manifestazione del pensiero, ha dato vita a numerose pronunce giurisprudenziali che hanno fatto coincidere quel diritto proprio a quello di essere informati. E quindi sappiate che quando in ospedale un primario risponde: “Passate dall’ufficio stampa”; quando al Calcio Como per mesi negano a Fabregas di parlare di Como con una testata comasca; quando una forza di polizia di fronte a degli arresti replica: “Non possiamo dire nulla, ordine del Procuratore”; quando un Comune tace atti pubblici, ci si fa beffe di un vostro diritto.
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