Il federalista Miglio e i sovranismi di oggi

In un mondo che si muove verso un ritorno delle nazioni, le riforme proposte negli anni ’80 dal politologo comasco sembrano superate. Ma lui ci inviterebbe a guardare oltre le apparenze

Damiano Palano, classe 1972, è professore ordinario di Filosofia politica. Dirige il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e il Centro per lo studio della democrazia e dei mutamenti politici. Tra i suoi lavori: “La democrazia senza qualità“ (2015), “Populismo” (2017) e “Animale politico” (2023). Ha curato il volume di Gianfranco Miglio, “La lezione del realismo. Scritti brevi sulla politica internazionale, l’Europa, la storia” (2022). Il testo che vi proponiamo lo ha scritto per il convegno “Il federalismo in Italia e la lezione di Gianfranco Miglio”, che si è tenuto il 21 maggio scorso a Montecitorio per approfondire la figura e l’opera del politologo lariano.

Quando nel 1992 fu eletto al Senato, Gianfranco Miglio divenne un personaggio pubblico, oltre che un protagonista del dibattito politico. Per trent’anni preside della Facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica, lo studioso comasco era certo conosciuto come intellettuale raffinato, come ricercatore di indiscussa competenza nel campo della storia delle istituzioni e della “politologia concettuale”. La sua fama era tuttavia rimasta circoscritta al ristretto ambito degli addetti ai lavori. Con il suo ingresso nell’agone politico, divennero però note anche le sue posizioni a favore di una riforma in senso federalista. E questo apparve ad alcuni – e soprattutto a coloro che conoscevano Miglio come alfiere di un energico “decisionismo” – come una sorta di contraddizione, o come il frutto di una svolta. Se effettivamente ci fu qualche elemento di novità nelle tesi degli anni Novanta, in realtà le convinzioni federaliste del professore avevano radici profonde.

I primi passi in politica

Nel 1943, il giovane Miglio – nato a Como nel 1918 – aveva iniziato infatti a frequentare alcuni circoli clandestini della Democrazia Cristiana. In particolare, era entrato in contatto con il gruppo guidato da Tommaso Zerbi, che, dalle colonne del “Cisalpino”, sosteneva la necessità per la nuova Italia democratica di una struttura federale simile a quella adottata in Svizzera. La linea ufficiale della Dc, all’indomani della fine del conflitto, si assestò invece sul progetto regionalista che confluì poi nella Costituzione del ’48. Le ipotesi di Stato federale furono del tutto accantonate, ma Miglio continuò ad avere un ruolo all’interno della Dc, ottenendo a livello locale anche incarichi di una certa rilevanza e sostenendo la necessità di dare attuazione all’impianto regionalista. L’istituzione delle regioni fu però rinviata, E anche per questo Miglio, a partire dal 1954, prese a diradare gli impegni politici. E nel 1959 – una volta chiamato alla guida della Facoltà di Scienze politiche della Cattolica – decise di uscire dal partito.

Il processo di unificazione

Negli anni seguenti i suoi studi si indirizzarono soprattutto alla storia dello Stato moderno e alla nascita dell’amministrazione pubblica. E proprio in quel periodo Miglio precisò la propria lettura sugli esiti a suo avviso fallimentari del processo di unificazione. Per un verso, si era infatti perseguito l’obiettivo dell’uniformità, sottovalutando le differenze territoriali del Paese. Per l’altro, si giunse a una sorta di “cripto-federalismo”, fondato sul ruolo delle clientele locali.

Fu poi a partire dagli anni Settanta che l’opzione federalista tornò ad affacciarsi. Dinanzi alle trasformazioni economiche e tecnologiche, Miglio iniziò infatti a chiedersi se le nascenti “megalopoli” non potessero diventare delle moderne “città-Stato”. Alla metà degli anni Ottanta colse inoltre la portata della “quinta rivoluzione produttiva”, destinata a suo avviso a dare un colpo letale alla configurazione degli Stati. La rivoluzione legata all’informatica avrebbe infatti avuto implicazioni opposte a quelle innescate dalla rivoluzione industriale: tendeva infatti a «liberare l’individuo dalla collaborazione personalizzata con i suoi simili», ne accresceva «la capacità di azione solitaria», stimolava i singoli «a sperimentare e innovare».

La transizione pareva dunque destinata a smantellare le basi materiali su cui erano nati e cresciuti nel corso dei due secoli precedenti le dottrine egualitarie, il movimento operaio e i partiti socialisti. E annunciava che il pendolo della storia si era rimesso in moto, oscillando verso il polo delle relazioni di scambio e allontanandosi dalla logica specificamente politica.

Proprio in virtù di quella previsione, Miglio riteneva innanzitutto probabile il ritorno in auge di quel diritto internazionale che il bipolarismo aveva congelato: un diritto internazionale pattizio, nel quale gli Stati sarebbero tornati ad avere una «sovranità perfetta», consentendo auto-limitazioni della loro sovranità per perseguire finalità utilitaristiche (come nel caso della stessa Cee). Ma la transizione che Miglio intravedeva – e naturalmente auspicava politicamente, come presupposto del successo neo-federalista – era soprattutto una conseguenza della crescente rilevanza degli attori economici multinazionali, destinati a indebolire strutturalmente il ruolo degli Stati. Le giovanili convinzioni federaliste riemergevano così sotto la veste di un neo-federalismo che auspicava non semplicemente la senescenza dello Stato-nazione, ma anche una progressiva scomparsa dell’“obbligazione politica”, a tutto vantaggio del “contratto-scambio”. Con la conseguenza che tutti i rapporti basati sull’esistenza di un potere «sovrano» si sarebbero dissolti, per essere sostituiti da relazioni contrattuali costantemente rinegoziabili.

Guardando avanti

Oggi, in un mondo molto diverso da quello che lo studioso comasco aveva conosciuto e che sembra muoversi verso un ritorno di sovranità e nazioni, quelle previsioni sembrerebbero smentite. Ma Miglio probabilmente ci inviterebbe a guardare oltre le apparenze, alla ricerca delle tendenze di lungo periodo. E sarebbe sicuramente in grado di fornire risposte preziose alle domande che ci poniamo.

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