Il Giornalista Collettivo è un personaggio potentissimo, però molto facile da analizzare. Se c’è una notizia, lui si trova dalla parte opposta, perché la sua ragione sociale non è il giornalismo, ma il conformismo.
Ora, in un paese normale, dove appunto non vigesse da decenni la dittatura del Giornalista Collettivo, una data come quella di ieri, e cioè il novantesimo anniversario dell’Holodomor, la carestia pianificata da Stalin nel 1932 in Ucraina che ha fatto morire di fame cinque milioni di contadini, di cui almeno due milioni erano bambini, sarebbe stata squadernata sulle prime pagine di tutti i giornali che piacciono alla gente che piace. Anche perché tale e tanta è la connessione con quello che sta accadendo in questi giorni sempre in Ucraina, dove Putin bombarda scientemente tutte le infrastrutture energetiche per ridurre al freddo, al buio e alla fame i civili, che è davvero impossibile non coglierne l’analogia.
Impossibile per tutti, fuorché per il Giornalista Collettivo testé citato. E infatti, al netto di un mirabile corsivo di Mattia Feltri sulla “Stampa” - non a caso uno dei pochi professionisti del settore che abbia superato i limiti invalicabili delle scuole dell’obbligo - e di pochi altri rivoli, non troverete niente. Niente di niente. E questo non perché si voglia paragonare Stalin - che in quanto a stermini di massa ha dato lezioni anche a Hitler, ma che resta comunque uno statista, il padre della patria che ha vinto la seconda guerra mondiale, spostando la linea del fronte da Stalingrado a Berlino – a Putin, che non è altro che una pulce della storia. Ma perché l’attualità brucia. E non scrivere le notizie è la cosa peggiore di tutte, quella che in questi anni meravigliosi di servilismo e tartufismo ha fatto finire la credibilità della categoria sotto la suola delle scarpe.
E uno si domanda perché, come sia possibile, come possa accadere che qui ci si accapigli per lo smemorato Soumahoro, l’infido tetto del contante a 5mila euro, il grottesco progetto del ponte sullo Stretto, la farsa della finta riforma delle pensioni, le ridicole polemiche sul merito e - la più divertente di tutte - l’allarme per il ritorno dei fascisti, mentre forse sarebbe il caso di concentrarsi non sul fascio, ma sullo sfascio, e tutto il resto della fuffa ignobile e vergognosa che ingombra i nostri palinsesti, mentre nel frattempo là è in atto un tentativo di genocidio e su tutto questo rimbomba un assordante silenzio.
Ma chi se lo chiede rivela di essere un grande ingenuo, uno sprovveduto che fa tenerezza, visto che non ha capito che il Giornalista Collettivo si sveglia, si imporpora e si infervora solo e soltanto in un caso: quando gli viene sventolata sotto il naso la bandiera americana. Su tutto il resto si stende un clamoroso chissenefrega, ma quando arrivano i gringos, ragazzi, allora sì che parte il circo Barnum. Il richiamo della foresta. L’autobiografia della nazione. Il riflesso pavloviano. La seduta di autocoscienza di “Ecce Bombo”. Che è tanta storia del nostro paese, della nostra cultura, del rosario conformista fariseo e filisteo della nostra categoria di rivoluzionari da salotto, di trozkisti del sei politico, di liderini mondialisti che progettavano l’attacco alle multinazionali dal tavolo del biliardo o, meglio ancora, dalla casa del papà in Sardegna.
Cosa avrebbe scritto e ululato il Giornalista Collettivo se le porcate di Putin le avesse fatte Trump o anche Biden (ma in questo caso un po’ meno…)? E quando gli Stati Uniti hanno fatto le loro di schifezze - che tra Iraq, Libia, Siria, Afghanistan e compagnia ne hanno combinate tali e tante che la metà basterebbe – ve le ricordate le lenzuolate, le piazzate, le santorate, le maledizioni, le scomuniche, ovviamente a sinistra, ma a pensarci bene anche un po’ a destra, perché è tutto l’occidente che fa schifo, che sfrutta, che umilia e che, diciamoci la verità, qualunque cosa succeda è sempre e comunque colpa sua? Tesi che, ovviamente, è stata applicata anche alla guerra di Ucraina, che infatti, essendo armata dall’occidente, e in particolar modo dagli Usa, tutto sommato se l’è andata a cercare, è un covo di nazisti ed era meglio si fosse arresa subito. Tutto vero. Sentito più e più volte in svariate redazioni, anche autorevoli, da svariati premi Pulitzer incompresi.
Ma non pensiate che il Giornalista Collettivo sia una cattiva persona o che pensi per davvero quello che dice. In quel caso sarebbe un mascalzone, un criminale, un farabutto. Macché. Niente di tutto questo.
La realtà, come ovvio, è molto più mediocre, aggricciata e grottesca, più degna di un impiegato fantozziano di Gogol’ che di un abisso del male di Dostoevskij. E poi non dimentichiamoci che siamo pur sempre in Italia, dove vige sovrano l’immortale aforisma di Flaiano: «Causa maltempo, la rivoluzione è rinviata a data da destinarsi».
Il Giornalista Collettivo non è un demone. È un fanfarone. Uno che vive in branco, in massa, in gregge. Vive di pose, di luoghi comuni, di piccoli livori, di una microscopica culturetta finto antagonista, finto ribellista, finto movimentista, sempre e comunque molto indignata, grazie alle quale i più svelti costruiscono formidabili carriere, quelli meno, invece, si accontentano di bivaccare in mandria alla macchinetta del caffè. Luogo dove, come noto, si decidono da sempre i destini del mondo e del giornalismo. E quindi siamo tutti sessantottini e tutti comunisti e tutti, o quasi, né con lo Stato né con le Bierre e tutti antidemocristiani e tutti anticraxiani e tutti antileghisti e tutti antiberlusconiani e tutti antirenziani e tutti antimeloniani, ma soprattutto tutti antropologicamente superiori e, come detto, tutti sempre e comunque antioccidentali e antipadronali. Sempre e comunque. Salvo un solo giorno al mese. Quello nel quale passiamo a prendere lo stipendio – e il panettone di Natale in omaggio - dal padrone di cui sopra.
Ma questa è un’altra, meschina, miserabile, spassosissima storia…
@DiegoMinonzio
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