«Il mio argento nato dalla testa dura. E dai pasticcini di Sancassani»

In redazione il medagliato olimpico Gabriel Soares. «Da piccolo ero iperattivo e pretendevo già parecchio. Avevo paura del lago e uscire in barca mi spaventava»

«Partecipare ai Giochi non mi bastava, perché la mia ossessione è sempre stata la medaglia. Sono cresciuto a Bellagio, vedevo sfilarmi davanti agli occhi tutti quei campioni locali del remo, da Sancassani a Gilardoni, da Pescialli a Belgeri, e mi dicevo che un giorno avrei voluto diventare proprio come loro. Ebbene, in questi giorni un argento olimpico sono riuscito a conquistarlo. Anche perché ognuno di loro mi ha trasmesso qualcosa». Gabriel Soares, 27 anni, il canottiere reduce dalla medaglia che si è messo al collo a Parigi, ha fatto un salto nella nostra redazione per raccontare e raccontarsi.

Iniziamo da quel bimbo che se ne è venuto dal Brasile.

Sono giunto in Italia con mamma quando avevo 10 anni. La mia era una famiglia povera, i miei si sono separati e con mia madre qui ci siano reinventati. A me piaceva remare perché mi faceva sentire libero. E spesso chiedevo di potermi allenare di più rispetto alle quattro sedute settimanali. “No, io ne voglio fare sette perché gli altri più grandi fanno così” rimbrottavo . Ero un piccolino che pretendeva. Dagli allenatori e dalla società, oltre che ovviamente da me stesso. L’obiettivo era questo.

Ma i brasiliani come indole non sono più inclini al divertimento?

Vero, ma io avevo questo sogno di far svoltare la mia vita e sapevo che per poterlo realizzare avrei dovuto lavorare duro, più degli altri.

I remi, ma non subito, corretto?

Da bambino non mi piaceva né studiare né andare a scuola. Ero il più classico degli ultimi della classe, oltre che un iperattivo. Non potevo restare in casa perché altrimenti la distruggevo e finivo per far danni. Solo iniziando a remare ho capito che l’istruzione era importante e infatti mi sono laureato in Scienze motorie e ora sono iscritto alla Magistrale in management sportivo. Un regalo che mi ha fatto il canottaggio.

Perché ha scelto proprio il canottaggio?

Ho praticato un sacco di sport diversi in Brasile, incluso il calcio che però mi annoiava, poi una volta qui ho iniziato con il basket a Le Bocce Erba, ma era distante da casa e mia mamma non mi poteva accompagnare. Nei pressi c’era il canottaggio che mi ha presto affascinato perché comprendevo che richiedeva parecchia fatica e sudore. E dunque era una risposta alla mia iperattività. Ma...

Ma?

Avevo paura del lago, in realtà, all’inizio. Uscire in barca per me era spaventoso e mi limitava. Allora l’ho presa come una sfida. “Devo riuscirci” mi dicevo, anche perché l’allenatore riconosceva in me delle doti fisiche. Correvo già facendo i tempi dei grandi e pure a tirar su pesi me la cavavo benino. Tutto ciò sino quando una mattina il lago è stato finalmente piatto e mi hanno messo in barca. Avevo 14 anni e da quel giorno, non sono idealmente più sceso.

Qualità e talento c’erano, ma il plus dicono sia stata la testa.

Vero, perché quando arriva il momento che devi far quagliare le cose la testa è prioritaria.

L’acqua l’ha scoperta sul lago?

A dirla tutta, in queste zone ho scoperto le montagne. Perché dove vivevo io, nel sud del Brasile, erano parecchio lontane. E così, una volta qui ho cominciato subito con un amichetto a fare i giri di tutti i sentieri, a piedi o in bicicletta. Mi divertivo.

Al di fuori del mondo del remo, c’è qualcuno in particolare a cui sente di dover dire grazie?

A Franco Sancassani, perché non solo è stato il mio allenatore, ma ha rappresentato pure quella figura paterna che io non ho più avuto.

Una curiosità degli anni bellagini?

Abitavo a Visgnola nella stessa piazza in cui c’era la pasticceria della famiglia Sancassani. Ogni giorno, finito l’allenamento, rientrando da Pusiano e consumando il pranzo in auto, ci fermavamo a salutare la simpaticissima Piera (la mamma degli atleti, ndr) che poi ci metteva a disposizione vagonate di pasticcini. Ero all’ingrasso.

A proposito, per poter gareggiare nei pesi leggeri, a Parigi pesava 70 chili. E la massa grassa?

Mi mantengo attorno al 5% quando sono in gara.

Lei sul due senza, accanto a Oppo, ha preso il posto che era stato di un altro medagliato olimpico comasco, Pietro Ruta.

Dopo quell’Olimpiade io ero il ragazzino che sgomitava per entrare in squadra e andavo forte in singolo vincendo il Mondiale. Da lì mi hanno provato sul doppio e dopo varie selezioni hanno affidato a me il ruolo di Ruta. Tra noi c’è sempre stata stima reciproca e in quel frangente Pietro ha capito che era arrivato il suo momento di far spazio ai giovani.

Ora che sarà costretto a lasciare i pesi leggeri, visto che non saranno più all’Olimpiade, su quale imbarcazione si vede?

Magari un doppio senior o un singolo. Lo si capirà, però, solo gareggiando.

Da qualche anno si è stabilito nel Varesotto: quanto si sente ancora lariano?

Parecchio. Bellagio resta casa e San Giovanni (sede dell’Us Bellagina) il luogo del cuore. E poi sono profondamente “laghée”.

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