Fantozzi realizzò al trentesimo del secondo tempo che la moglie Pina si era invaghita del fornaio Abatantuono, ora invece a una manciata di giorni dell’inizio ci si rende conto che il mondiale di calcio in Qatar sarà, per restare nell’ambito del ragioniere frutto della genialità di Paolo Villaggio, una c…ata pazzesca. È tutto un florilegio di denunce con i riflessi però un po’ lenti: strutture inadeguate, timori per i diritti umani, vari rischi di flop, Rod Stweart che rinuncia al milione offerto per cantare alla cerimonia inaugurale e perfino Fiorello che se la prende con la Rai per i 200 milioni immolati sull’altare dei diritti di trasmissione. Quasi una fortuna, insomma, che l’Italia non ci sia, non fosse che i quotidiani sportivi, orfani delle gesta azzurre, debbano ridursi a pubblicare la “mancata nazionale delle wags” (cioè le compagne dei calciatori che non saranno presenti a Doha).
Basta aggiungere i danni su tutti i campionati europei, spaccati in due per la prima volta dalla competizione che sarebbe stato impensabile, visto il clima desertico, organizzare d’estate, per averne a sufficienza. Eppure a tutto questo non si era pensato prima quando la Fifa, non l’altro ieri, ma anni fa, aveva dato la stura all’ennesimo sfregio ai danni del pallone con l’assegnazione della massima competizione per nazionali al ricco emirato. Chiaro che è tutta una questione di quattrini, ma forse il movimento, almeno questa volta avrebbe potuto avere un sussulto di dignità e ribellarsi ai voleri dei padroni del calcio dicendo “no” a questa scelta e rifiutandosi di prendere parte alla manifestazione. Ormai è tardi, direte, la macchina è già in moto. Ma allora che senso hanno queste grida di dolore che si stanno levando in varie direzioni? D’accordo che il business non conosce confini, però forse ormai, sarebbe il caso di capire che il calcio non è un fenomeno universale. Ci avevano provato negli Stati Uniti già alla fine degli anni ’70 con il Cosmos di Pelè, Beckenbauer, Chinaglia e altri e poi con il mondiale del 1994 (anch’esso piuttosto allucinante), poi è toccato all’Africa di cui si attende da anni l’esplosione, quindi alla Cina e all’Oriente. Quanti piatti di bisogna assaggiare per capire che questa minestra è, dal punto di vista culturale, buona solo per l’Europa e il Sudamerica dove quello che un tempo era un gioco è nato e si è sviluppato? Certo, gli altri Continenti possono sfornare campioni che, però guarda caso, emergono solo nei campionati di quello Vecchio; i ricchi emiri e gli autocrati possono acquistare i club; il destino di un’istituzione come lo stadio di San Siro rischia di essere deciso da gente che sta a centinaia di migliaia di chilometri dal glorioso stadio. Ma questo è business, qualcosa che dal calcio inteso appunto nella sua veste culturale e sportiva, dovrebbe restare separato. Invece è stato mischiato tutto, con la nascita di una bolla che però prima o poi esploderà. Perché le nuove generazioni, a cui l’andazzo generale sta negando sempre di più la possibilità di cimentarsi in questo gioco, si trasformano sempre meno in spettatori. E poiché tutto il baraccone si regge sui diritti tv prima o poi la coperta diventerà troppo corta.
Si tratta solo di aspettare. Nel frattempo dovremmo sorbirci il mondiale in Qatar (la prima è un “croccante” padroni di casa contro Ecuador), l’astinenza dai campionati e le incognite sulla ripartenza. E già lo spot scelto dalla Rai per presentare l’evento, spinge d’istinto il dito ad agire sul telecomando e cambiare canale.
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