In cella 33 anni da innocente: «Ecco come sono sopravvissuto»

La testimonianza In biblioteca il pastore sardo condannato ingiustamente. Zuncheddu: «Stanza piccolissima. Ognuno aveva la sua croce da portare»

Como

«Ognuno in carcere aveva la sua croce da portare. Mi facevo coraggio, ci facevamo coraggio l’uno con l’altro». A parlare, collegato in videoconferenza con la biblioteca di Como, è Beniamino Zuncheddu, ex pastore sardo condannato all’ergastolo per la “Strage di Sinnai”, riconosciuto però innocente con la Revisione dopo quasi 33 anni di ingiusta detenzione.

«Adesso sto bene»

«Non è la prima volta che sento parlare del mio caso – ha scherzato parlando alla platea da un monitor, dopo che il suo avvocato aveva sintetizzato l’accaduto – Adesso sto bene, perché sono a casa… Compirò 61 anni, ne avevo 26 quando accadde tutto. Sono stato detenuto per quasi 33 anni». «Come è la mia vita oggi? Quella di un pensionato senza pensione, aiutato dai miei parenti che mi sono sempre stati accanto, venendomi a trovare tutte le settimane».

L’incontro di ieri è stato organizzato dall’Associazione Giustizia e Democrazia ed era moderato dall’avvocato Marcello Iantorno. Presente anche il procuratore di Como Massimo Astori. A parlare i protagonisti del ribaltone giudiziario, l’avvocato Mauro Trogu (difensore di Zuncheddu) e il procuratore generale presso la Corte d’Appello di Milano Francesca Nanni, che (all’epoca in Sardegna) si convinse dell’innocenza del pastore riaprendo le indagini e contribuendo ad ottenere una intercettazione chiave che permise di chiedere la Revisione. «La cella era piccolissima – ha ricordato Zuncheddu – La condividevo con molti detenuti. È l’istinto di sopravvivenza che ti salva. Facevo qualche lavoro, le pulizie, lavoretti con gli stuzzicadenti». Nel corso dell’incontro è stata ricostruita la vicenda processuale, che si basò principalmente sul superstite della strage che accusò Zuncheddu di aver ucciso a fucilate tre persone e di averlo ferito gravemente. Il superstite disse di averlo visto bene. Solo che – come ricostruito poi dalla difesa – dal punto dove aveva detto di trovarsi non poteva aver visto in volto il killer, visto che era buio e che era anche controluce rispetto all’unica flebile fonte di illuminazione. Inoltre, il riconoscimento arrivò dopo 50 giorni in cui aveva sostenuto altro, di aver visto un uomo non a viso scoperto ma con un collant sul volto. Anche per la ricostruzione balistica con la traiettoria descritta del colpo il ferito avrebbe dovuto essere colpito alla testa e non alla spalla.

La revisione

«Mi convinsi che qualcosa non tornava – ha detto il procuratore generale – Riaprimmo un fascicolo per un eventuale complice, poi risentimmo il testimone. Gli chiesi se aveva un peso da levarsi dalla coscienza. Quando tornò in macchina disse alla moglie… “hanno capito”». Grazie a quella intercettazione fu possibile arrivare alla revisione e alla liberazione dell’ex pastore. Il testimone in aula raccontò la verità, dicendo che era stato un poliziotto a fargli vedere la foto di quello che diceva essere il responsabile, e che il pastore avrebbe dovuto fidarsi di lui. «Non lo fece per calunniare – ha concluso la Nanni – Era convinto davvero che quello fosse il responsabile».

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