Un giornalista che si rifiuta di intervistare Hitler non è un giornalista. È un imbecille. Si intervistano tutti, si scrive tutto, si pubblica tutto: questo è il decalogo di chi fa informazione senza piaggeria e moralismo. Poi, per carità, siamo uomini di mondo, ma almeno la soglia della decenza non bisognerebbe mai dimenticarsi di oltrepassarla.
Eppure, sono in parecchi nella nostra categoria di scienziati e ancora di più in quell’altra categoria di cervelloni e tartufi che è la politica a ritenere e declamare e pontificare e comiziare che, insomma, non è possibile dar voce ai dittatori e ai corruttori e agli stupratori e agli accoltellatori e non bisogna diventare il megafono dei nemici della patria e dell’umanità e non bisogna lasciare spazio a chi è fuori dall’arco costituzionale e bisogna proteggere i nostri cittadini, i nostri bambini, le nostre vecchie zie, le nostre casalinghe di Voghera e via trombonando con tutta l’untuosa retorica farisea e filistea che contraddistingue il penoso dibattito politico nella nostra ancor più penosa repubblica delle banane.
Il caso dell’intervista al ministro degli esteri russo, Sergej Lavrov, trasmessa qualche giorno fa su Rete4 nella trasmissione Zona Bianca, ha suscitato un vespaio di polemiche con tanto di interventi altisonanti e pubblica reprimenda al conduttore Giuseppe Brindisi, reo di aver permesso a Lavrov una sequela di affermazioni partigiane e demagogiche. E anche platealmente false, come quella che ha fatto più scalpore sulle origini ebree del Führer proprio come Zelensky.
Ora, l’intervista è stata effettivamente penosa e del tutto priva di quello che ne costituisce il sale: le domande. Le domande vere, strutturate, incalzanti e tenaci nel contestare e impugnare qualsiasi affermazione sia basata su dati e documenti non veri. Ma il problema non è certo l’intervista in quanto tale e nemmeno il profilo etico e morale dell’intervistato - a proposito, chi lo decide? -, ma la pochezza professionale dell’intervistatore e, quindi, se un giornalista si rivela non all’altezza del compito non è un buon motivo per cancellare le interviste. Basta molto semplicemente farle fare a qualcun altro.
Altrimenti, se dovessimo basarci sul ridicolo presupposto che si può parlare solo con i buoni, i puri e, soprattutto, quelli che la pensano come noi, non ci sarebbero mai state, giusto per fare qualche esempio celebre, le interviste di De Benedetti a Hitler (appunto), di Montanelli a Franco, di Malaparte a Mao, della Fallaci a Khomeini, di Biagi a Gheddafi o, per stare nel nostrano, di Umberto Gay a Vallanzasca, senza dimenticare Totò Riina, Pacciani (che tra l’altro era stato poi assolto), il mostro di Milwaukee, Erika e Omar, Rosa e Olindo con il seguito di autocrati, gerarchi, sterminatori, mafiosi, corruttori e tutto il resto della feccia dell’umanità. Che comunque, chissà come mai, va a sempre a finire sui media e ne costituisce dalla notte dei tempi il picco di vendite e di ascolti. Perché se ci infiliamo nel modello del giornalismo pedagogico con la mano sul cuore, quello che parla solo del bene e del bello, cancella la cronaca giudiziaria e la cronaca nera e scrive solo dei treni in orario e mai di quelli in ritardo si finisce dritti filati nel prototipo mussoliniano che - tipico delle dittature cancellare le notizie - faceva proprio così: niente rapine, niente furti, niente omicidi, solo treni puntuali come in Svizzera. E guarda un po’ com’è andata a finire…
Ma la cosa ancora più risibile, spassosa e grottesca è che tutta l’indignatissima indignazione dei meglio indignati in servizio permanente effettivo dell’informazione e della politica italiana è sgorgata proprio da quei soggetti che hanno basato sulle interviste in ginocchio la propria ragione sociale, il proprio marchio di fabbrica, il proprio stile di vita. Almeno il povero Brindisi aveva il terrore che se avesse fatto un rilievo troppo aggressivo al braccio destro di Putin – tipo “ragionier Lavrov, abbia pietà, mi si sono intrecciati i diti”… - magari il giorno dopo si sarebbe trovato mezzo litro di polonio nella tazza del thè o una testa di cavallo nel letto. Noi invece, in questi anni di conformismo circense che ha fatto il suo salto di qualità con la gloriosa seconda Repubblica, ci siamo beccati dei monologhi, dei comizi, delle filippiche a reti unificate da parte degli arruffati demagoghi da strapazzo che si sono alternati al potere senza che nessuno - con tutte le eccezioni del caso, per carità - osasse mai fare una domanda vera, sbugiardare una balla colossale, contestare un’inesattezza plateale. Una sequela infinita di finte interviste con le domande concordate via mail, di talk show dove il politico decide da quale giornalista farsi vezzeggiare, di tappetate, leccate di scarpe, sviolinate a tutti i premier, tutti i ministri, ma anche tutti i sottosegretari e deputati e consiglieri regionali e provinciali e rionali con salmerie annesse e connesse. Perché questi qui sono tutti uguali - cosa credete? - a questi interessa solo farsi immortalare in un reel mentre tagliano i nastri e poi dire che la gente ha sempre ragione e che la colpa è sempre di qualcun altro.
E noi, che dovremmo stare lì a fare i cani da guardia della democrazia e le sentinelle dei territori e i rappresentanti di chi non ha voce né potere e bla bla bla facciamo sempre da scendiletto del padrone di turno perché, in fondo, siamo tutti della stessa pasta, facciamo parte tutti della stessa famiglia: quella di chi sa stare al mondo e che se ne frega di chi non ce l’ha fatta. Pensateci un attimo. Tutti i politici sono giornalisti, tutti i giornalisti aspirano a fare i politici o i portavoce dei politici o gli strateghi dei politici. I controllori e i controllati sono la stessa roba, sbocciano nello stesso sottobosco, grufolano alla stessa mangiatoia, frequentano gli stessi ambienti, parlano la stessa lingua.
Diciamoci la verità: se ci srotoliamo per Di Maio, poi come facciamo a fare nero Lavrov?
@DiegoMinonzio
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