Immaginate se il panettiere al quale avete ordinato i bocconcini a grano duro per il pranzo di Natale, la notte della vigilia preferisse starsene a letto. Consegnandovi, il mattino dopo, il pane del Natale dell’anno passato: “Oh sciura, tant l’è istess”. Ecco, è quanto accaduto l’altroieri mattina in un’aula di giustizia. Il “panettiere” del nostro esempio indossava la toga, però. I bocconcini, nella fattispecie, risalivano addirittura a quattro anni prima. E il “pane” in questione rischia di avere effetti ben più seri di un pranzo di Natale rovinato, visto che parliamo di richieste di condanna. La cronaca giudiziaria di questi giorni, ci regala due esempi di come la giustizia non dovrebbe mai funzionare. E di come, al netto delle francamente inutili polemiche su fatti ritenuti a torto il male assoluto di questo Paese (leggi, ad esempio, la questione sbarchi che domina le cronache e infiamma i social), il funzionamento della (in)giustizia stia diventando un problema, a cui generazioni di poteri legislativi ed esecutivi (un potere giudiziario azzoppato fa comodo) non hanno mai dato risposta (se non per interessi personali).
I fatti in questione riguardano il processo di appello per il “caso paratie”, con le richieste di condanna agli ex amministratori di Como, e l’annullamento delle pene per “rimborsopoli”, ovvero le regalie che un’intera classe politica si è fatta a spese dei contribuenti.
Nelle aule dei tribunali si decidono le vite delle persone. Esseri umani che talvolta si ritrovano accusati ingiustamente. “In nome del popolo italiano” non si distribuiscono bocconcini a grano duro, ma anni di carcere. Per questo fa effetto vedere un rappresentante dello Stato, il Procuratore generale che in appello rappresenta l’accusa, presentarsi davanti a giudici, avvocati e imputati dimostrando totale disinteresse verso un caso (le paratie) che per Como è invece di enorme rilevanza. Il magistrato in questione ha fatto come il panettiere della pennichella la notte della vigilia: ha preso un documento scritto da altri ben quattro anni prima, e in dieci minuti scarsi ha chiesto la condanna confezionata allora per 9 imputati, e per tre di loro ha pure sollecitato pene che aprirebbero di default le porte del carcere. Tutto questo senza neppure fare lo sforzo (peraltro meramente matematico) di ricalcolare le richieste di pena sulla base di quei reati che, nel frattempo, la prescrizione ha cancellato. Quando parliamo di prescrizione, parliamo di quel meccanismo di garanzia introdotto per tutelare il singolo dallo strapotere dello Stato. La logica è elementare: se tu, Stato, non sei in grado di giudicarmi in un tempo ragionevole, allora è giusto che non mi giudichi proprio. Peggio per te.
Qui veniamo al secondo caso giudiziario: “rimborsopoli”. La Cassazione ha dato un colpo di spugna a tutti i reati. Solo 3 degli oltre 40 ex consiglieri regionali lombardi che hanno riempito i carrelli della spesa facendo pagare Pantalone, sono stati condannati. Per gli altri è scattata la prescrizione. Anche se il reato – hanno stabilito i giudici – lo hanno commesso. Paradossalmente questa apparente ingiustizia è in realtà la più alta forma di giustizia. Basti dire che alcuni dei fatti per i quali gli imputati erano ancora oggi a processo, risalgono a oltre 14 anni fa. Significa che lo Stato italiano si è preso un ottavo dell’esistenza di 40 esseri umani prima di riuscire a giudicarli. È giustizia, quando sei chiamato a pagare per fatti avvenuti ere geologiche prima? È come se uno studente sorpreso a copiare all’esame di maturità, venisse bocciato quando, ormai trentenne, ha la sua vita e lavora e solo perché prima lo Stato aveva di meglio da fare, che occuparsi di lui. E dopo dieci anni gli andasse a dire: bocciare dovevo bocciarti. Farlo oggi o allora “tant l’è istess”. Ma l’è minghi inscì ch’el se fa.
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