La tragedia di Cutro e la brutta politica

In una scena memorabile di “Aprile”, film gracile e autoreferenziale ma, come sempre in Nanni Moretti, capace di riflessioni profondissime, addirittura profetiche, il protagonista è sulla spiaggia di Brindisi, dove pochi giorni prima era avvenuta una delle stragi di immigrati più dolorosa della storia italiana.

Il 28 marzo del 1997, infatti, una nave della marina militare aveva speronato in acque internazionali un battello carico di profughi albanesi - quella volta era il loro turno - che stavano cercando di avvicinarsi alle coste. Il bilancio era stato di un centinaio di morti, più o meno le stesse dimensioni della tragedia di Cutro. Bene, in quella sequenza - che si può recuperare su YouTube - Moretti sviluppa una delle critiche più demolitorie della sinistra, a quei tempi curiosamente al potere grazie al primo governo Prodi: «Il fatto che in questi giorni non sia venuto nemmeno un dirigente della sinistra è il sintomo della loro assenza politica, ma soprattutto della loro assenza umana… non gliene importa niente… Io me li ricordo gli anni Settanta alla Fgci: i giovani comunisti romani stavano tutti i pomeriggi davanti al televisore a vedere “Happy days”… questa è la loro formazione politica, culturale e morale». E alla contestazione che ciò non c’entrasse nulla con la morte di quei disperati rispondeva con un paradosso di rara acutezza: «Vabbè, non c’entra. Però c’entra. Non c’entra, però c’entra».

Era fin troppo chiaro con chi ce l’avesse il regista. Ce l’aveva con tutta quella culturetta che aveva informato la sinistra italiana dagli anni Ottanta in poi e che ben poco aveva a che spartire con l’altra culturetta gruppettara anni Settanta così ferocemente irrisa in “Io sono un autarchico” e in “Ecce bombo”. E cioè, in sintesi, l’approccio superficiale, conformista, modaiolo, provinciale alla modernità che aveva raggiunto il suo acme, il suo apogeo, il suo splendore negli anni del “veltronismo” in politica, del “pieraccionismo” nella cinematografia e nel “fazismo” in televisione. Insomma, nel cosiddetto “buonismo”, che ha informato tanta parte del pensierino sinistroide negli anni Novanta - una fuffa oggettivamente ridicola - e che avrebbe poi subìto come inevitabile contrappasso il cosiddetto “cattivismo” della destra nel decennio successivo - una fuffa altrettanto ridicola, beninteso. Buonismo che però era solo una facciata retorica, da esibire sui giornali, da sbrodolare in romanzetti da circolo di amichetti benpensanti, da squadernare nei talk show e che invece consisteva, in pratica, nel trionfo del conformismo, del filisteismo, del mero tartufismo, come l’assoluta indifferenza nei confronti della strage nel canale di Otranto, appunto, avrebbe di lì a poco dimostrato.

Questa fustigazione dei mali profondi di una sinistra che non era più ancorata alle radici avvelenate, ma storiche e identitarie, dell’ideologia, e invece solo alle velleità carrieristiche e all’imitazione succube e provinciale del clintonismo e del blairismo è tornata alla mente in questi giorni della nuova tragedia immigratoria sulle coste calabresi osservando le reazioni della classe dirigente di destra, anche lei finalmente al potere dopo tanti anni di opposizione. L’effetto è lo stesso. Anche qui la prima cosa che è venuta a galla dalle acque brulicanti di cadaveri è proprio la totale inadeguatezza - prima ancora che politica - culturale, morale, addirittura antropologica dei nuovi padroni del vapore, che se di certo non si sono formati su Fonzie e Richie Cunningham probabilmente lo hanno fatto su “Uomini e donne” e “Il Grande Fratello” (non quello del romanzo…).

E questo non ha nulla a che vedere con le responsabilità penali vere o presunte. Di quello si occuperà la magistratura, sperando che lavori in maniera più seria e meno immaginifica di quella di Bergamo, che sul caso Covid ha appena sfornato dei provvedimenti lunari, al limite dello Stato etico in salsa iraniana. Non è questo che importa. La cosa che conta, l’unica, è il nanismo di un ceto politico che non ha alcuna dimestichezza con la realtà (e con il sapere), che vive di pensierini, di frasette, di battute, di giochini sui social, di comparsate e imbucate e sceneggiate in diretta televisiva, immerso in un eterno stato adolescenziale, dei ragazzini sprovveduti che parlano di cose che non conoscono, che fanno cose di cui ignorano le conseguenze e che non si tengono un cecio in bocca, come insegna il brillantissimo ministro degli Interni.

Tutta gente che, appena tirata fuori dal liquido amniotico della sua bolla egoriferita nella quale è concesso dire scempiaggini assolute tipo “blocchi navali!”, ma anche “accogliamoli tutti!”, così come “dagli al negro!”, ma anche “è tutta colpa degli Usa!”, perché è questo il livello dei nostri statisti, e messi di fronte alle tragedie vere che la storia pone regolarmente sul cammino – il terrorismo, la pandemia, la guerra – li vedi balbettare e piagnucolare e frignare e scaricare il barile e io non c’ero e io non c’entro ed è colpa di quelli che c’erano prima ed è tutto un complotto e i poteri forti e le multinazionali e mio cugino e le cavallette e bla bla bla. Che pena.

Una generazione di politici bambini, infantili, superficiali che non ha il coraggio di dire che l’immigrazione è un fenomeno epocale che non si può fermare né con le ruspe dei demagoghi di destra né con la retorica pauperista dei tromboni di sinistra e che va gestito con raziocinio e serietà. E che pone l’obbligo di prevedere l’immissione - governata, coordinata, selezionata, controllata - di quantitativi sempre più numerosi di migranti da avviare al lavoro, senza i contributi dei quali, in una situazione ormai irreversibile di disastro demografico europeo, a breve fallirà il nostro sistema previdenziale, il nostro sistema sanitario e anche il nostro sistema economico.

Qualcuno avvisi gli statisti di cui sopra che è suonata la sveglia, che gli agretti con olio e limone sono in tavola e che è l’ora di staccarsi da Instagram.

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