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Martedì 20 Agosto 2024
«Le nostre valigie gettate nell’oceano»
Le voci degli emigranti dalla Val Menaggio al Sud America tra XIX e XX secolo. Seicento cartoline, lettere e fotografie da poco digitalizzate. Domenica un incontro
La mostra “Dalle Alpi alle Ande - Immagini e documenti della grande emigrazione”, curata da Sentiero dei Sogni, si può visitare ancora sabato 24 agosto ore 15-18 nella Sala consiliare di Bene Lario e alla Fornace Galli di Grandola ed Uniti. Domenica 25 agosto alle 16 finissage alla Fornace Galli con racconti degli emigranti e merenda con mate e dolci tipici. Info: http://oradelmate.eventbrite.it
«Mamma mia dammi cento lire / che in America voglio andare» dice un ritornello di fine Ottocento. Un canto tipico del Nord Italia, dove genericamente America era chiamata anche quella del Sud, meta prediletta dei nostri contadini. Gente che cento lire le guadagnava in un anno di lavoro, 12 ore al giorno sette giorni su sette marito e moglie, perché il grosso dello stipendio, altre 500 lire circa, il “signor padrone” lo pagava in natura, con quote del raccolto. Il sacrificio da fare prima di partire era grande, ma la speranza di un futuro migliore di più. Incentivi stanziati dai Paesi di destinazione, quando avevano più bisogno di braccia, e “casse comuni” create con le sottoscrizioni dei compaesani che dall’altra parte del mondo ce l’avevano fatta, favorirono l’esodo.
Per comprendere la complessità del fenomeno è utile consultare gli oltre 600 documenti contenuti nel baule ritrovato nel 2004 nella soffitta della casa di Giuseppe Balbiani a Grona, oggi frazione di Grandola ed Uniti, ma Comune autonomo al tempo in cui lui ne divenne sindaco (inizio ’900) dopo essere rientrato dall’Uruguay. La straordinaria mole di lettere, cartoline e fotografie, relative all’esodo da tutta la Val Menaggio verso Cile, Uruguay e Argentina, è stata digitalizzata da Isabella Riquelme-Toro, ricercatrice cilena originaria di Grona, grazie al progetto “Dalle Alpi alle Ande” e al bando promosso dal ministro degli Affari esteri per l’Anno delle radici italiane nel mondo.
Viaggio infinito
Il secondo ostacolo da affrontare per raggiungere la “terra promessa” era il viaggio in nave. «’Pena giunta in alto mare / bastimento si rialzò» dice sempre la canzone. Agli emigranti della Val Menaggio andò meglio, anche se non mancarono le “tragedie sfiorate”: a Bene Lario si racconta la storia di tre passeggeri di terza classe che, avendo finito i viveri a bordo del transatlantico, dovettero tirare a sorte chi sacrificare di loro (l’avvistamento della terraferma salvò in ragazzo destinato a finire nel calderone, che tuttavia rimase muto per il resto della vita); nella casa di Balbiani è conservata la “Domenica del Corriere” con in copertina il naufragio del Sirio (4 agosto 1906), costato la vita a oltre 500 persone. Sullo stesso vapore avevano viaggiato in precedenti occasioni i nostri emigranti.
Il primo a partire fu Pietro Maldini di Bene Lario, nel 1836, su un brigantino a vela. Dagli anni Settanta del XIX secolo i velieri cominciarono a essere sostituiti dalle navi a vapore, che li soppiantarono a partire dal 1890 circa. All’inizio ci volevano 60 giorni di viaggio in condizioni normali, che progressivamente si ridussero a circa 30, ma i tempi potevano anche raddoppiare in caso di “mare grosso”. Chi partiva da Genova faceva scali a Cannes, Barcellona, Lisbona, Funchal, Dakar, Rio de Janeiro, Santos per approdare infine a Buenos Aires. Ma per i passeggeri provenienti dalla Val Menaggio di solito il viaggio non era finito, poiché i più puntavano al Cile e all’Uruguay. L’11 dicembre 1906 Cherubino Bianchi scrive al suo compaesano Giuseppe Balbiani, soffermandosi sul trattamento ricevuto dai viaggiatori di terza classe al momento del trasbordo a Buenos Aires per prendere la nave che li avrebbe condotti a Salto, città uruguaiana nota per la battaglia combattuta da Garibaldi nel 1846. «Dopo 9 minuti di trovarci a bordo alle ore 11 del mattino partiva il vapore per Salto, così che nemmeno abbiamo avuto il tempo di bere un bicchiere di acqua in terra [...]- annota Bianchi -. Se può considerare Lei con che pressa [ci] siamo trovati in quel momento con il movimento di quella immondizia di gente che erano come animali, perché eravamo 1.750 passeggeri e Lei ha visto in Genova la confusione che c’era, qua in Buenos Aires era peggio non volevano aspettare niente tiravano fino le valigie dal vapore a terra che più di una sono cascate nell’acqua».
Natale in mare
Sovente i nostri emigranti salpavano in autunno inoltrato e sbarcavano in Sudamerica nel pieno dell’estate, passando in mare le festività: «Con un mare tranquillissimo siamo fino qui giunti, speriamo seguire uguale. Desiderandovi tutto bene [,] auguriamo felice Natale e Capo d’anno unito ad un poco di calore di quello di qui [che] avanza» si legge in una cartolina firmata da “Giovanni ed Eugenia” e inviata il 12 dicembre 1925 da Dakar.
La meta più difficile da raggiungere era il Cile. Fino all’apertura del canale di Panama (1914), molti emigranti diretti sulla costa del Pacifico dovettero sbarcare in Argentina e scavalcare le Ande con i carri e a piedi, poiché poche navi si arrischiavano ad attraversare lo Stretto di Magellano. Li agevolò in parte la Ferrovia Transandina, costruita alla fine del XIX secolo con l’impiego di migliaia di lavoratori italiani, sotto la direzione dell’ingegnere Edwin Cerio, che anni dopo si sdebiterà con il popolo cileno ospitando Neruda a Capri. Tuttavia, diversi emigranti lariani preferirono affrontare ulteriori costi e chilometri, andando a imbarcarsi a Liverpool, da dove partivano transatlantici che osavano inoltrarsi nelle terre magellaniche. È il caso della nave Oropesa, da cui il 2 ottobre 1907 Luigi Maldini di Bene Lario scrive alla sorella Lucia a Nesso per comunicare il felice superamento dell’ostacolo più temuto: «Lo stretto lo abbiamo passato molto bene. Sortimmo da questo alle 5 ½ AM del 30. Qui sempre il mare è cattivo ma felicemente lo trovammo molto buono. Domattina arriveremo a Coronel da dove vi spedirò la presente per via Andes (se per caso potrà passare) perché per vapore solo partirà il 15 con questo stesso».
Dalle loro nuove case gli emigrati cercavano di comunicare “solo cose belle” ai parenti rimasti in Val Menaggio: il baule di Balbiani è ricco di foto in pose e vestiti eleganti che ritraggono intere famiglie, neonati, bambini alla prima comunione e freschi sposi.
Ma anche in America (del Sud) le soddisfazioni bisognava guadagnarsele con fatica: «Dopo 12 anni di un consecutivo lavoro arrivò un giorno che potei abbandonare la casa per un mese e godere del riposo e diversione a che tutti abbiamo diritto. Da queste deliziose montagne che mi ricordano i nostri paesi cari invio a voi e parenti tutti affettuosi saluti» scrive il nipote Giovanni Giovannetti a Balbiani il 26 gennaio 1918 da Chillán.
Dall’altra parte del mondo i nostri emigranti dovettero fare i conti anche con qualcosa di cui sul Lago di Como si era persa la memoria: i terremoti. Considerando che la comunità più numerosa di valmenaggini si riunì a Copiapò, nel Nord del Cile vicino al deserto di Atacama dove le miniere di argento e rame costituivano un forte attrattore, si può ben immaginare l’impatto che ebbe su di loro il terremoto del 1922 (8,5 gradi della scala Mercalli), accompagnato da uno tsunami.Una testimonianza diretta è contenuta in una lettera dello stesso Giovannetti allo zio Balbiani del 15 novembre: «Come Vi avevo annunciato, il giorno 2 ottobre mi sposai con la signora Eugenia Porcile e da quel giorno c’incontriamo lontani da Caldera, abbiamo visitato tutto il sud del Cile fino a Valdivia dove si presentano agl’occhi bei panorami che ricordano i cari paesi nativi, non come il nord che sono puri deserti aridi e sabbiosi. Ci preparavamo a ritornare a casa in questa settimana quando l’amico Ambrogio Tornini [...] sottomesso ad una chirurgia alla prostata, dopo 8 giorni li venne una complicazione ai polmoni [...] che messe la sua vita in un grave pericolo. Avvisai immediatamente a Copiapò all’amico Luigi Maldini, il quale partì nel treno dal venerdì 10 dell’attuale, appena arrivò a Vallernar, città distante da Copiapò circa 200 chilometri, quando alle 11:00 P. M. un forte terremoto distrusse completamente la detta città come ugualmente Copiapò [...], restando incomunicabili per due giorni dalla famiglia in Copiapò e dal suocero, senza poter sapere almeno uno con l’altro se si incontravano vivi. [...] Ieri ricevetti pure notizie di Caldera dove per fortuna il terremoto [...] non occasionò pregiudizi [,] solo la salita di mare che lo precedette si portò via tutti gli edifici fiscali che s’incontravano alla spiaggia: dogana, stazione ferroviaria e treni completi. A Copiapò morirono da 60 a 70 persone, tutte gente povera che vivono in case di pessima costruzione, nessun conosciuto per fortuna, pero dicono che nemmeno una casa è rimasta abitabile». Ad alcuni comaschi non restò che emigrare di nuovo, spostandosi in Argentina.
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