L’altra sera sul tardi, quando gli “on line” hanno cominciato ad annunciare le nuove misure per combattere il coronavirus, ho scoperto con qualche sgomento, che noi anziani eravamo al centro dell’attenzione e del clamore. Si annunciava che il popolo sopra i 65 anni “deve stare in casa” e non si capiva se questo era un consiglio, oppure un ordine, un diktat, o addirittura una minaccia. Noi poveri vecchi come me, che di anni ne conto 81, siamo così diventati di colpo protagonisti di questa, a quanto sembra, incontenibile pandemia. Abbiamo conquistato, nostro malgrado, una dimensione biblica. E’ evidente che possedendo ormai poche difese ed essendo già debilitati dalla vecchiezza, gli anziani devono stare in casa: che non corrano il rischio di essere contaminati.
Quindi a prima vista, l’invito, chiamiamolo bonariamente così, è per il loro bene. C’è però anche il risvolto della medaglia. Per i giovani, gli anziani, così rumorosamente tirati in ballo, possono essere a loro volta gente sospetta di essere portatori del virus, quindi da evitare. Penso dunque che sarebbe stato molto meglio se non fossero stati tirati in ballo, con ultimatum a titoli cubitali: come si diceva una volta.
Con l’invito (chiamiamolo ancora così) dell’altra sera mi sono sentito come se fossi finito uno della peste del Manzoni, un untore, uno dei lanzichenecchi dei Promessi Sposi, la cui calata in Lombardia contribuì a diffondere la peste. Insomma mi sono sentito davvero in colpa. Però la mattina dopo ho reagito subito e mi sono detto: «Perché devo stare in casa? Voglio vedere come va. Voglio capire se i giovani mi prendono davvero per un untore».
Una volta in strada, incrociando altre persone, dunque temevo che qualcuno mi avrebbe chiesto a muso duro: «Ma lei “matusa” dove va? Cosa fa in giro?». Immaginavo che qualche altro, conoscendomi, avrebbe girato alla larga. Invece ho camminato per un po’ lungo il corso, per la verità meno affollato del solito, ho incontrato tante persone ma nessuna di loro mi ha guardato storto, e tanto meno mi ha sgridato perché portavo in giro la mia fragile vecchiaia a dispetto del Governo.
L’indifferenza dei giovani davanti a noi vecchi elevati, nostro malgrado, a “star” negative del coronavirus, mi ha tirato un po’ su il fiato. Inutile negare, infatti, che, dentro o fuori casa, questo maledetto coronavirus ha tirato davvero un brutto colpo a noi anziani. Sta mettendo a rischio anche l’ultimo refolo di una giovinezza che sapevamo ormai lontana ma non del tutto perduta.
Nonostante tanti anni sulle spalle e ancora di più malanni, un alito di quella prima, esuberante e felice stagione della nostra vita aveva continuato a soffiare quasi gagliarda, se non altro grazie a ricordi pieni di emozioni, rimembranze che favorivano ancora qualche piccola, magari anche fievole illusione giovanile. Invece a turbare è anche l’amara constatazione della grandezza della pandemia, una dimensione che per cancellarle chissà quanto tempo occorrerà. E noi con tanti “anta” sulle spalle di tempo a disposizione non è che ne abbiamo tanto. Proprio in questi tempi di fine inverno eravamo piacevolmente presi a programmare le vacanze estive. In tempi lontani sono state le Ande, l’Himalaia, il Maekong , Ceylon, le avventure. Poi, passando gli anni, le migrazioni si sono avvicinate: le capitali europee, la Sicilia, la Sardegna, i maestri del Rinascimento. Adesso mi è rimasto Bormio che avevo sempre snobbato. Ma mi basta. Speriamo che questo coronavirus e il relativo catastrofismo me lo concedano.
Ecco perché questa storia degli anziani costretti, o invitati che sia, a stare in casa, non ha fatto altro che contribuire ad aggravare pesantemente quel funesto malessere che queste morbo del nuovo millennio ci ha scaricato addosso.
Quindi se ai vecchi è detto di stare in casa ai giovani bisogna dire di andare in giro il più possibile.
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