Come ha fatto diventar grande il mio balcone, questa biblica, nera stagione di clausura e di paure. Quanta importanza, quanta forza hanno conquistato gli alberelli e i fiori che prima forse non mi avevano mai condotto a grandi riflessioni e che avevo visto solo come una bella passione di mia moglie. Invece adesso, anche grazie ad alcune settimane di sole che il clima, quasi per prenderci in giro, ci ha donato, il mio balcone è diventato importante, ampio, verdissimo, rigoglioso. L’albero del limone che avevo sempre visto come essenza del tutto normale, sta dando i fiori: con qualche accenno di profumo. Ecco però, che questa volta, queste infiorescenze sono diventate veramente come le zagare dei limoneti e degli aranceti della mia amata Sicilia, infiorescenze piene di gioia, cantate anche dai poeti siciliani. Ecco che mi par di avvertire quei bei profumi forti che più talvolta mi hanno incantato percorrendo i sentieri tra aranceti, limoneti e filari e filari di viti lungo le sconfinate colline di Salemi, della Conca d’Oro, di Ciaculli.
Ha compiuto lo stesso miracolo l’ulivo che mi ha portato le grande plaga verde di quel cantone del Tavoliere sopra il quale si alza il candido colle di Ostuni. Poi c’è il piccolo melograno, poi ci sono i fiori di mia moglie, coloratissimi, da bagnare ogni sera, scrupolosamente, di cui non ricordo mai i loro nomi ma che sono diventate cascate di colori stupendi tra le bacchette della ringhiera.
Il maledetto coronavirus ha portato tanti dolori, infiniti turbamenti, paure e disagi, mi ha fatto precipitare il morale sotto i piedi, quasi ha cancellato le mie speranze: davvero un colpo da Ko, per lo spirito e per il mio fisico vecchio, malato.
Per fortuna ho trovato il balcone. Penso che l’alto gradimento per questo mio “poggioeu” sia sentimento comune per molti “matusa” come me. Certo sarebbe stato molto meglio che il virus assassino non si fosse mai affacciato sulla faccia della terra, ma qualche cosa ha cambiato, almeno per me, nella considerazione che avevo dei balconi.
Più che al mio avevo, prima, sempre guardato più ai balconi della storia, per la verità, quasi tutti visti in una luce un po’ triste. A cominciare da quello di Piazza Venezia. Ecco poi il balcone di Evita e di Peron, poi quella dal quale Nerone si affacciava a vedere Roma in fiamme da lui incendiata, per non parlare del tetro balcone sulla piazza Rossa a Mosca, sopra il mausoleo di Lenin. Nemmeno il balcone di Giulietta a Verona riesce a portarci pensieri gioiosi perchè su quella terrazza comincia la triste storia dei due amanti. Ora grazie al mio balcone diventato grande posso sbaragliare via tutti i tristi pensieri che accompagnavano ogni mio ricordo dei balconi della storia.
Il “mè bell pugioeu” mi regala pure qualche lieve mitigazione delle forti sofferenze che di questi tempi mi tocca sopportare, davanti agli autocarri militari che trasportano centinaia di bare, alla scomparsa di alcuni miei amici, alla lettura di malati che muoiono soli e dei loro parenti che non possono nemmeno salutarli, recitare una preghiera, posare un fiore. Seduto tra il verde del mio balcone da qualche giorno mi pare anche di intravedere anche se fioca ed evanescente (speriamo non sia un miraggio), l’alba di questa tremenda, interminabile notte. Questo è il regalo più bello. Mi ricordo quando ero militare al Car ad Albenga, tanti anni fa, quando alla sera del quarto giorno di ferma il trombettiere suonò un silenzio fuori ordinanza così stonato da far ridere tutta la caserma e portare qualche refolo di letizia e di ottimismo tra noi reclute, mi dissi: «Bene, quattro giorni se ne sono andati, 17 mesi all’alba».
Un tempo lunghissimo, ma almeno l’alba, pur piccolissima, quella volta, si vedeva, eccome si vedeva. Adesso il dramma è che questa “alba” non si riesce ancora a vedere. E questa è forse la tragedia più crudele che ci regala questo maledetto coronavirus. Meno male che, almeno, c’è “el me bel pugioeu”.
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