Noi italiani siamo gente tosta, rigorosa, inflessibile. Una volta sposata una causa la portiamo fino in fondo, costi quel che costi, coesi, adesi, protesi, disciplinati e, soprattutto, coerenti, senza farci trascinare dalle mode o influenzare dal suadente richiamo del potere.
E infatti non abbiamo mai finito una guerra con gli stessi alleati con i quali l’avevamo iniziata, abbiamo da tempo scelto il maresciallo Badoglio come vero punto di riferimento esistenziale della nazione e abbiamo individuato nel salto della coda, nel parcheggio in tripla fila, nello zerbinamento scientifico nei confronti del primo capetto che passa e, soprattutto, nel “lei non sa chi sono io” i quattro punti cardinali del nostro stare al mondo.
Strana la vita. Dopo la prima settimana di Olimpiadi e relativa conquista di tanti bronzi e argenti, ma di pochissimi ori da parte della comitiva azzurra, eravamo tutti lì, spaparanzati, neghittosi, mollaccioni e cicciobombi sui nostri divani a insultare quegli incapaci, quei falliti, quei poveracci, quelle autentiche vergogne della patria, e basta ed è ora di finirla e la gente è stanca, la gente è stufa, la gente non ne può più. Poi, all’improvviso, ma guarda un po’, dopo la clamorosa e totalmente imprevista e imprevedibile gragnuola di primi posti, anche nelle categorie più nobili in assoluto - l’Italia che vince l’oro nei 100 metri maschili e l’oro nella 4x100 maschile è una roba inaudita, una roba da pazzi, una roba che non sta né in cielo né in terra - eccoci qua invece tutti quanti uniti come in un sol corpo a festeggiare ed esaltare e venerare e idolatrare i nostri impavidi eroi, e bravi e fenomeni e marziani e fuoriclasse evviva evviva e siamo solo noi e dagli agli inglesi e dagli agli americani e dagli pure ai giamaicani. Con tutto il relativo codazzo di retorica dannunziana sul quale in questi giorni stanno offrendo prestazioni di valore europeo i meglio tromboni del giornalismo collettivo nazionale: e quanto è bella questa Italia del melting pot e quanto è sagace questa Italia proletaria della fatica e del sudore e quanto è bella questa Italia giovane e ardita della sfida e della rivalsa ed è un segno del destino, è il segno dei tempi, è il segnale della rinascita di un grande paese che cerca un posto al sole e uno spazio vitale e vuole tornare a dire la sua e bla bla bla che se vanno avanti così fra un po’ chiederanno a Draghi di riprendersi Fiume, Nizza e Savoia.
Ma questo non è ancora niente. Perché, conoscendo i nostri polli, c’è da giurare che, trascinati dall’onda dell’entusiasmo e del più sano spirito emulativo, nei prossimi giorni assisteremo alla fulminea trasformazione di un popolo di bradipi pantofolai sovrappeso in una falange di cultori del corpo, del benessere e dell’agonismo competitivo. Chiunque da decenni faccia sport la mattina prima del lavoro o la sera dopo il ritorno a casa - in zona ci si conosce un po’ tutti: tragitti, orari, abitudini - già da un paio di giorni, percorrendo di corsa le strade del basso lago, ha avuto modo di ammirare le prime avanguardie di quelle mandrie e vagonate e carrettate di neo sportivi della domenica che, deposte finalmente pigrizia e accidia, hanno deciso di emulare le gesta dei loro nuovi beniamini olimpionici, invadendo strade, sentieri e parchi pubblici.
Il colpo d’occhio è terrificante. Degno delle migliori disavventure di Fantozzi e Filini alle prese con lo sport, rese immortali dai capolavori letterari e cinematografici di Paolo Villaggio e che (qui sarebbe fondamentale proprio la sua voce) si può riassumere più o meno così.
Abbigliamento del novello centometrista: gonnellino pantalone bianco di una sua zia ricca, maglietta Lacoste pure bianca, mocassino da passeggio di cuoio grasso, calza scozzese e giarrettiere, scarpetta cartonata del nonno di Livio Berruti.
Abbigliamento del novello marciatore: maglietta della Gil, mutanda ascellare aperta sul davanti e chiusa pietosamente con uno spillo da balia, grosso calzerotto di spugna modello Abdon Pamich alle Olimpiadi del 1964, elegante visiera con la scritta Casinò municipale di Saint-Vincent.
Abbigliamento del novello ciclista da inseguimento: berretto bianco alla marinara della figlia Mariangela, giacca penosamente stretta in vita da gigantesca gomma di ricambio residuato bellico del Giro d’Italia di Binda&Girardengo, fionda elastica, siero antivipera a tracolla, carte topografiche, gabbietta con canarino da richiamo, gatto randagio da riporto.
E li vedi lì, tutti impegnati nel loro nuovo scopo di vita, tutti realizzati per aver finalmente trovato non solo un entusiasmo, ma addirittura una missione: propagandare al mondo intero quanto sia bello ed esaltante e rigenerante praticare lo sport, ma non quello marcio e vizioso del calcio e dei suoi banditi, quanto invece quello duro e puro della fiaccola di Olimpia. Bello, vero? Un sogno. Che però, come tutti i sogni, durerà poco. Qualche settimana di bel tempo, qualche domenica a tutta birra nel solco dei Jacobs, dei Ganna e dei Tortu, anche noi come loro, anche loro come noi. Poi, piegati dalla fatica, dal sudore e dalle delusioni - lo sport è terribile e spietato molto più della famiglia e del posto di lavoro, che credete? Si perde sempre anche lì… - e forse soprattutto dal ricovero nell’unità coronarica o nel reparto ortopedico dell’ospedale più vicino, pian piano, con le prime brume dell’autunno, torneremo finalmente a essere quello che siamo, quello che siamo sempre stati e quello che saremo per sempre, al riparo da rotture di legamenti, strappi del deltoide e aritmie cardiache.
E torneranno così anche le acanine, struggenti domeniche italiane. Alle 20.45 inizierà il match clou di campionato, per il quale ogni italiano medio ha da sempre un programma formidabile: calze, mutande, vestaglione di flanella, tavolinetto di fronte al televisore, frittatona di cipolle per la quale va pazzo, familiare di Peroni gelata, tifo indiavolato e rutto libero! Altro che le Olimpiadi…
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