S’aggira in Europa, ma più ancora in Italia, lo spettro della recessione. La nostra economia era già ferma prima della pandemia. Ora abbiamo solo l’incertezza su quanto arretreremo: l’8%, come ipotizza il governo, o molto di più? Non c’è quindi da perdere tempo nel metter mano a interventi capaci di far invertire la tendenza.
Per dare l’idea delle proporzioni del baratro in cui siamo sprofondati si ricorre in genere alla metafora della guerra. Il richiamo a quegli anni terribili è certo efficace, ma può risultare fuorviante. Il nemico d’oggi è subdolo, s’insinua in modo invisibile. Anomala è la guerra, anomala sarà anche la ricostruzione. Dovremo metterla in atto mentre il nemico continua ad aggirarsi tra noi, nelle nostre strade, nelle nostre case.
Ricostruzione sì, ma quale? Il pensiero corre agli anni esaltanti del 1945-50. L’Italia usciva piagata e piegata da una guerra atroce, con più del 50% delle strade, delle ferrovie, dei ponti abbattuti, con città bombardate, con un terzo del suo apparato produttivo distrutto, con la sua popolazione ridotta alla fame.
Ebbene, questa Italia trovò le forze per risorgere: presto, al completo, anzi meglio di quel che era stata fino al 1940, col contributo, col sacrificio, con l’entusiasmo di tutti. Creò le basi di quel “miracolo economico” che avrebbe riscattato l’Italia dalla condizione di arretratezza, di povertà, di cronica disoccupazione in cui si dibatteva per farla divenire una moderna società industriale.
Il richiamo a quella gloriosa epopea inorgoglisce. Stimola l’emulazione. Può essere, però - si diceva - fuorviante. Se si guarda con occhio spassionato ai dati di partenza, l’oggi presenta più analogie col primo che non col secondo dopoguerra. Furono quelli anni terribili. Inaugurarono un ventennio di crisi nera. L’Italia finì nella morsa del protezionismo, dell’autarchia, di una stagnazione senza rimedio: il tutto nel quadro di una dittatura votata alla guerra. Una catastrofe gigantesca, per di più del tutto inaspettata. La felix Europa (almeno fino allora) alla vigilia della guerra mai avrebbe immaginato un esito tanto drammatico.
Per fortuna, al presente, non ci sono avvisaglie di un tale disastro. Ci sono, tuttavia, segnali che l’Italia, e un po’ tutto l’Occidente, abbiano davanti a sé un futuro tutt’altro che roseo. Mancano le premesse di una fervida collaborazione, di una sicura crescita, di un consolidamento della democrazia come avvenne dopo il 1945.
La parola d’ordine scattata al deflagrare della pandemia è stata “ognuno per sé”: caccia alle mascherine, ai respiratori e a tutto ciò che serve alla lotta al coronavirus, frontiere sbarrate, riluttanza - per usare un eufemismo - a condividere i sacrifici e, ancor più, le spese della ripartenza. Quanto alla politica, non si può dire certo che le democrazie occidentali ne stiano uscendo rafforzate, anzi. La pandemia ha accelerato derive autoritarie: dalla Cina alla Russia, al Brasile. La suggestione dell’ “uomo solo al comando” (vedi Orban in Ungheria), la spinta all’accentramento delle decisioni, la valorizzazione dello stato a suon di sovvenzioni, sussidi, intromissioni nella vita privata potrebbero avviare un contagio pericoloso. Per questi motivi la strada per la ricostruzione non sarà una facile replica della situazione creatasi nel secondo dopoguerra. Meglio prepararsi alla sfida che nutrire pericolose illusioni su una pronta, sfolgorante ripartenza.
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