Il diavolo è nei dettagli. Quando ieri due importanti quotidiani nazionali hanno messo la notizia delle manifestazioni contro l’invasione dell’Ucraina a pagina 21 e un terzo non gli ha dedicato nemmeno una riga, alla persona maliziosa è subito venuto maliziosamente in mente un pensiero malizioso.
Si era già visto dal primo giorno della tragedia che sta avvenendo nell’Europa dell’est - tragedia vera, non tragedia da talk show, da comizio televisivo, da cialtronata social - che qualcosa non andava. E dire che se ne sono viste di crisi internazionali in questi anni - le torri gemelle, l’Iraq uno, l’Iraq due, l’Afghanistan, la primavera araba, il terrorismo islamico eccetera - e quindi di occasioni non ne sono mancate per osservare il dipanarsi delle vicende belliche e di quelle, più interessanti, dello scomporsi del fronte interno, delle polemiche politiche, delle spaccature culturali, delle reazioni di piazza. Eppure stavolta c’è qualcosa di diverso. Qualcosa di più tiepido. Qualcosa di più timido. Qualcosa che non va.
Ora, la persona maliziosa di cui sopra potrebbe maliziosamente insinuare che, tutto sommato, in fondo, diciamoci la verità, del destino degli ucraini non gliene importa niente a nessuno. D’altronde, non si capisce per quale motivo a un occidente gonfio, satollo, garrulo e cellulitico, tutto concentrato sulle sue vacanze al mare, i suoi weekend in montagna, i suoi aperitivi nei locali sul lungolago che piacciono alla gente che piace, i suoi shopping compulsivi, insomma, su tutta la fuffa che ingorga la sua patetica esistenza, dovrebbe interessare l’Ucraina, visto che non gli importa nulla pure della dittatura a Minsk, della carestia nel Sahel, dei paria di Bombay e dei narcos di Juarez.
Certo, c’è questo, se non vogliamo essere ipocriti e la piantiamo di frignare e piagnucolare sulle nostre articolesse lacrimose dedicate alle povere badanti ucraine, ai poveri camionisti ucraini, alle povere modelle ucraine. Ma c’è dell’altro. Perché se si vuole che il dramma raggiunga il suo climax, se vogliamo che la rivolta delle coscienze deflagri e che la gente si riversi nelle piazze ed esponga le bandiere alle finestre e si infervori in animatissime discussioni familiari e condominiali, ci vuole un elemento unificante. Ci vuole un cattivo. Anzi, ci vuole il Cattivo. Il Cattivo assoluto. Il Cattivo per antonomasia.
E il paradosso, qui nella repubblica delle banane, è che il cattivo non può essere un Saddam o un Bin Laden o un Gheddafi e ora pure un Putin qualunque: quelli sono cattivi seriali, sono cattivi di ruolo. Gli si affibbia dell’“assassino”, del “terrorista” o meglio ancora del “nazista” (definizione priva di significato in questo contesto) e siamo a posto. No, il Cattivo morboso, il Cattivo pruriginoso, il Cattivo dei Cattivi deve essere figlio nostro, partorito dal nostro grembo, germogliato dal nostro cuore di tenebra occidentale lurido, spietato e soverchiatore.
Gli Stati Uniti. Anzi, gli americani. Ecco cosa manca alla ricetta per renderla perfetta e sopraffina. Mancano gli americani. È quello il tic, il birignao che fa fare il salto di qualità, quello grazie al quale le piazze, in questi giorni popolate da poche centinaia, al massimo poche migliaia di ammirevoli, stoici e commoventi - davvero - oppositori dell’invasione, diventerebbero adunate oceaniche urlanti e ululanti, sbandieranti e sventolanti, stigmatizzanti e maledicenti e dagli ai gringos e dagli agli sceriffi e dagli ai cowboy imperialisti, come nella memorabile manifestazione del 2003, quando a Roma si riversarono tre milioni (!) di persone contro l’invasione dell’Iraq.
Sia chiaro e sottolineato in rosso cinque volte. La storia degli Usa è piena di guerre sbagliate e demenziali che sono costate migliaia di morti innocenti e c’è una lunga fila di presidenti (di solito democratici) che in politica estera ne ha combinate di cotte e di crude, dal chissà come mai mitizzato Kennedy all’altro chissà come mai tanto rimpianto Obama, dall’inetto Carter al disastroso, vergognoso Bush junior. Non è questo il punto. Il punto non è la valutazione oggettiva di un intervento militare. Il punto è il riflesso condizionato. Il nostro riflesso condizionato. Il nostro ridicolo e provinciale e intollerabile riflesso condizionato che, figlio di una cultura politica segnata non dall’individualismo e dal pensiero liberale, ma da due Chiese onnivore, totalizzanti e stataliste, per quanto una contro l’altra armata, hanno sempre visto con sospetto tutto quello che gli Usa rappresentavano e rappresentano. Deformazione che è rimasta pure oggi. A sinistra. Ma anche a destra. Tanto è vero che ii nostri giovani (?) statisti (?) hanno più volte manifestato ammiccamenti e innamoramenti con inquietanti personaggi – com’è democratico Xi Jinping, com’è spiritoso Kim Jong-un, com’è umano Putin… - che hanno come unico comune denominatore quello di essere anti americani. Coprendosi di ridicolo, perché anche un bambino sa che non esiste un’Italia fuori dalla collocazione occidentale.
Come sarebbe tutto più facile (fantapolitica…) se l’Ucraina l’avesse invasa Biden, come le parti in commedia sarebbero tutte ben definite, come sarebbe spontaneo riversarci in piazza per maledire il loro modello culturale, il loro essere la causa di tutto, il loro essere il Male assoluto e quanti e quali appelli di intellettuali e intellettualesse e poeti e romanzieri e teatranti citerei e cantanti e cantantesse e vecchie glorie del ‘68 e duri e puri del ‘77 e occupazioni liceali e pantere universitarie e giornalisti mondialisti e rapper antagonisti, tutti a maledire loro e i loro servi inglesi e israeliani, con tutta quella retorica baldanzosa e conformista alla quale ci siamo fariseicamente allineati negli ultimi 40 anni e di cui oggi forse qualcuno si vergogna. Ma che ci ricorda così tanto gli anni verdi della gioventù, quando tra un “Kissinger fascista!” e un “Reagan maiale!” facevamo il filo alla biondina della 5C. Il primo amore vale pure una guerra…
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