Teniamoci caro l’uomo di scarto

Narra la leggenda che al Corriere della Sera tutti considerassero Buzzati un idiota. Il dirimpettaio di scrivania, niente meno che sua maestà Indro Montanelli, lo aveva soprannominato Cretinetti.

Troppo timido, troppo montanaro, troppo soldatino applicato al dovere quotidiano. Troppo diverso, troppo perdente. Uno scarto, per quel luogo storico e prestigiosissimo. Ed era lui il primo a considerarsi un mediocre, un fallito, un giornalista da niente, uno al quale quelli bravi rifacevano sempre i pezzi, mentre lui sentiva su di sé, eterno marchio d’infamia, i sorrisi di compatimento, i silenzi imbarazzati, mentre loro, i grandi capiservizio, i grandi capicronisti e, soprattutto, i grandi inviati-editorialisti, lo lasciavano fuori dai loro giri, dalle loro confidenze. Un errore. Un paria. Uno scarto, appunto.

Poi, un giorno, Buzzati pubblicò “Bàrnabo delle montagne”. E dà lì in poi nessuno, Montanelli per primo, lo avrebbe mai più chiamato Cretinetti. Anzi, nei suoi confronti, immortale arte italica del servilismo, si scatenò nei decenni successivi il campionato mondiale di leccapiedismo e quanto era bravo e quanto era geniale e noi lo avevamo sempre detto e noi lo avevamo capito subito che quello lì non era un imbucato, ma un fuoriclasse e noi lo conoscevamo bene e ricordati degli amici e bla bla bla. Che pena.

Quello dell’emarginazione e dell’eliminazione di chi non appartiene a ciò che oggi quelli che parlano bene definiscono il “mainstream”, è un tema formidabile, umano e profondissimo come pochi altri, che nel corso del Novecento ha ispirato un’altissima letteratura a supporto. E fra i tanti esempi che si potrebbero citare, vale forse la pena di ricordare il magma narrativo di un capolavoro di Nabokov, “Invito a una decapitazione”, romanzo di chiarissima matrice kafkiana, nel quale il protagonista, Cincinnatus C., si trova improvvisamente e misteriosamente imprigionato in attesa di essere giustiziato senza aver fatto nulla. La sua unica colpa - anzi, come piacerebbe a Kafka, la sua unica Colpa - è quella di essere un uomo “opaco” dentro un mondo di uomini “scintillanti” e in quel mondo non si è condannati per quello che si fa, ma per quello che si è. Lui è opaco: è un errore, è una deformità. È un cascame. Da eliminare. Bisogna tagliargli la testa.

Nel ricchissimo seminario culturale legato alle “Primavere della Provincia” e al “Cortile dei Gentili”, organizzato dal nostro giornale giovedì e venerdì scorsi al Campus di Lecco e al Collegio Gallio di Como, abbiamo parlato proprio di questo. Dello scarto. Lo abbiamo fatto grazie alla presenza innanzitutto del fondatore del Cortile, il cardinale Gianfranco Ravasi, e del suo presidente, l’ex premier Giuliano Amato, che hanno aperto e chiuso i lavori delle due giornate, e anche grazie a una nutrita e qualificata selezione di relatori - imprenditori, scienziati, docenti, filosofi, ricercatori, divulgatori, con tanto di spettacolo cinematografico e spettacolo teatrale - che hanno scavato ognuno con la propria competenza e la propria sensibilità un tema che tocca le aziende, le scuole, la società, la sostenibilità del nostro modello di sviluppo e, soprattutto, l’etica. Perché il primo seme dell’ideologia dell’eccesso, dell’iperproduzione, della fabbricazione inutile e velleitaria è proprio la riduzione dell’uomo a mero consumatore, essere passivo allineato al pensiero unico universale, che non prevede deviazioni, non prevede originalità, non prevede individuo. Chi non è nell’alveo del grande fiume, è fuori dalla storia, fuori dal mercato, fuori dalla comunità.

Ma al di là degli esempi più evidenti ed eclatanti - il diverso è uno scarto, il migrante è uno scarto, il malato è uno scarto e così il vecchio, l’abbandonato, il perdente, il fallito, ed esiste uno scarto più empio, più scandaloso, più intollerabile del feto abortito? - è come sempre nella normalità che vediamo gli esiti nefasti di questa visione del mondo. Ed è qui che torna utile l’esempio di Buzzati. Le nostre case, i nostri uffici, sono pieni di gente liquidata, vessata, ghettizzata, ignorata, ognuno ne avrà fatto di certo un’esperienza personale. Sono quelli che non capiscono, che non si adeguano, che non reggono il ritmo del processo produttivo. Certo, molto spesso è colpa loro e molto spesso sono loro ad essere privi delle capacità che servirebbero. Ma ne siamo così certi? Siamo davvero sicuri che quel collega non abbia davvero alcun talento? Ma proprio nessuno? Tutti hanno un talento, anche i più disperati, anche i più squalificati, anche i più tartassati, almeno uno, ben nascosto, come raccontava Olmi in una delle scene più commoventi dell’“Albero degli zoccoli”: “A ogni bambino la Provvidenza dà il suo fagottino”.

E aveva ragione. Il fagottino individuale è quello che si oppone al grande e già tracciato corso della storia, del costume, del pensiero unico fariseo e filisteo, del pensiero catalogato, quello delle terrazze e dei salotti della gente che piace alla gente che piace, ma anche quello delle osterie, delle fiaschetterie e della adunate di piazza. E noi, invece di tenercelo caro, quell’essere opaco in mezzo a questa mandria di pecoroni, in questo parco buoi, in queste salmerie, tendiamo ad allontanarlo, a emarginarlo, a scartarlo.

Attività, quella della distruzione del talento e della massificazione dei comportamenti, nella quale, ad esempio, le redazioni dei giornali sono maestre indiscusse, perché questa è la loro natura, ed è il motivo per cui chi scrive questo pezzo ha sempre guardato con attenzione ai colleghi zimbello, ai colleghi fantozzi, ai colleghi calimero. Perché generalmente sono dei pirla - e ciò gli è di gran conforto: così si sente meno solo… - ma spesso si rivelano dei valori da tutelare come una specie protetta, visto che hanno scelto di non far parte dei tonni, che si muovono solamente in branco, e preferiscono invece essere squali, che nuotano da soli verso il mare aperto, dove li aspettano il pericolo e la libertà.

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