Tumori ossei nei bambini, la chirurgia fa progressi

L’intervista L’osteosarcoma e il sarcoma di Ewing sono malattie che ogni anno colpiscono in Italia circa 300 piccoli pazienti. Il professor Primo Daolio: «Si tratta di schemi di terapia molto complessi»

I tumori maligni dell’osso rientrano tra le malattie rare, e sono più frequenti nei bambini o negli adolescenti. Ogni anno in Italia in questa fascia di età si riscontrano circa 300 nuovi casi. Dopo l’asportazione del tumore osseo la ricostruzione del segmento operato richiede tecniche chirurgiche specifiche che vanno dalle protesi, al trapianto con osso autologo (del paziente) o con osso di banca da donatore. La chirurgia dedicata ai piccoli pazienti negli anni ha visto l’introduzione di importanti novità.

Ne abbiamo parlato con il professor Primo Daolio, direttore dell’Unità operativa complessa di Ortopedia oncologica e del Dipartimento di Ortopedia traumatologia e chirurgie specialistiche dell’Asst Gaetano Pini-Cto.

Professore quali sono le neoplasie ossee più frequenti nella fascia pediatrica?

I tumori più frequenti in età pediatrica e adolescenziale sono l’osteosarcoma e il sarcoma di Ewing, circa 110/130 nuovi casi anno. Ad essi vanno aggiunti rari casi di rabdomiosarcoma, tumori di origine vascolare, fibrosa e il condrosarcoma, molto raro nel bambino mentre è più frequente nell’adulto e nell’anziano.

In questi casi è sempre necessario l’intervento chirurgico?

C’è da fare una premessa: esistono tumori a basso grado di malignità e tumori ad alto grado di malignità. Nelle malattie a basso grado il bambino viene sottoposto solo a intervento chirurgico di asportazione del tumore. Se invece il grado di malignità è alto, viene eseguito un ciclo di chemioterapia prima dell’intervento, allo scopo di controllare localmente il tumore e eliminare eventuali metastasi a distanza. Dopo questo primo ciclo si asporta il tumore. Il materiale asportato viene valutato dall’anatomopatologo che studia il grado di necrosi ottenuta, cioè l’efficacia della chemioterapia. Sulla base di questo valore il bambino viene poi sottoposto a un altro ciclo di chemioterapia con i farmaci più efficaci.

Non esiste, quindi, un iter terapeutico specifico?

No, ogni caso è a sé. Si tratta di schemi di terapia molto complessi che devono tenere conto di diverse variabili: l’età del bambino, la sede di malattia e la possibile presenza all’esordio di metastasi polmonari.

Esistono dei campanelli di allarme?

Senza allarmare genitori, possiamo però dire che i segnali tipici di una neoplasia ossea sono il dolore costante e il gonfiore. Un bambino che riferisce un dolore localizzato, senza cause traumatiche, che si protrae nel tempo o peggiora, va senza dubbio attenzionato. Inoltre, va ricordato che le sedi più frequenti di queste malattie sono “attorno al ginocchio” (femore distale e tibia prossimale) e a livello della spalla. Quindi attenzione ad un dolore fisso e persistente o ad un gonfiore improvviso, comparsi senza traumi vicini al ginocchio o alla spalla.

Come avviene la diagnosi?

In caso di sospetto il pediatra deve richiedere una radiografia. In base all’esito di questo accertamento, a conferma di un dubbio fondato, possono essere prescritti degli esami di secondo livello come la Risonanza Magnetica e la Tac. In seguito, viene eseguita una biopsia, che può essere una ago biopsia o una biopsia chirurgica. È importante che la biopsia venga eseguita nei centri specializzati che si occuperanno dell’eventuale intervento chirurgico.

Quali sono gli specialisti coinvolti? La vostra Ortopedia Oncologica è un’eccellenza, ci aiuta a capire le principali difficoltà nel dover trattare dei pazienti così giovani?

Il primo specialista di riferimento è il pediatra che deve avere il dubbio diagnostico. Il trattamento poi prevede un gruppo multi disciplinare di cui fanno parte l’ortopedico, il radiologo, l’oncologo, il radioterapista e l’anatomo patologo. Nella discussione multidisciplinare, che nel nostro centro avviene settimanalmente, il gruppo valuta il paziente, i suoi esami strumentali e decide l’iter diagnostico e poi terapeutico più adeguato. In queste decisioni va considerata primariamente la ricerca della guarigione ma anche la possibilità di una buona qualità di vita: trattandosi di bambini in fase di crescita, vanno valutati la funzionalità dell’arto operato, la possibilità di un accorciamento importante in conseguenza della chirurgia, gli effetti collaterali della chemioterapia sull’apparato endocrino e la possibilità di procreazione futura. Queste complessità rendono indispensabile l’invio del bambino in centri specialistici.

Lo scorso giugno l’Asst-Pini-Cto ha organizzato un convegno proprio su questi temi. Quanto contano momenti di questo tipo e quali le novità?

Sono fondamentali per divulgare le nuove conoscenze agli specialisti coinvolti affinché a loro volta questi possano diffondere nuove competenze nella comunità scientifica. Per quanto riguarda le novità, queste sono soprattutto legate alla chirurgia. La chemioterapia, introdotta sul finire degli anni ’60 e che ha rappresentato una svolta per la possibilità di guarigione, non si è modificata in modo sostanziale e si basa in gran parte sull’impiego dei medesimi farmaci. Malgrado ciò bisogna ricordare che prima dell’avvento della chemioterapia, le possibilità di guarigione dei bambini era attorno al 5% mentre oggi sono più del 60%.

La chirurgia, invece, è in costante evoluzione?

Si, le tecniche chirurgiche e di ricostruzione nel bambino si sono sempre più affinate. Oggi i bambini amputati sono una minoranza. Per quanto riguarda la ricostruzione protesica, oggi si impiantano protesi modulari in titanio: sono composte da vari segmenti di lunghezza differente che vengono assemblati per poter raggiungere la lunghezza adeguata a quanto asportato. Dobbiamo però ricordare che impiantando una protesi in un bambino in fase di crescita, l’arto operato subirà nel corso degli anni un accorciamento importante rispetto all’arto controlaterale. Per ovviare a questa importante complicazione, negli ultimi anni sono state introdotte protesi allungabili e chiodi allungabili. Si tratta di protesi o di chiodi che una volta impiantati nell’arto operato, attraverso un motore elettromagnetico, sono in grado di allungare progressivamente l’osso o la protesi stessa. Il motore e l’allungamento vengono regolati attraverso un semplice telecomando esterno (molto simile a quello di un televisore o di un elettrodomestico) senza che il bambino lamenti alcun dolore.

E per quanto riguarda le ricostruzioni biologiche?

Per le ricostruzioni biologiche si eseguono i trapianti ossei. La porzione di osso malata viene asportata e sostituita da un osso “di banca” proveniente da un donatore oppure può essere trapiantato un osso “autologo”. Più frequentemente viene utilizzato il perone, un osso della gamba che può essere asportato per un lungo tratto poiché nel cammino il carico dell’arto avviene sulla tibia. Il perone viene asportato con l’arteria nutrizia, impiantato e fissato. Infine, con tecnica microchirurgica l’arteria del perone viene collegata ad una arteria del segmento operato, in modo che ricevendo un normale afflusso sanguigno possa vivere e crescere nel tempo. Il perone può essere trapiantato singolarmente o all’interno di un osso di banca, così da rendere l’impianto più resistente alle necessità fisiologiche. In alcuni casi può essere trapiantato anche con la sua cartilagine di accrescimento prossimale e in questo caso si allungherà con la normale crescita dell’arto.

E il follow up?

Nei tumori maligni vengono effettuati controlli frequenti, ogni 3-4 mesi, per i primi anni tre anni. Per poi passare a controlli semestrali e infine controlli annuali sino al decimo anno. Il controllo dei pazienti portatori di protesi si può protrarre però anche per molti anni dopo la guarigione oncologica per valutare eventuali problemi meccanici.

Per questi pazienti e le loro famiglie, quanto conta il dialogo e il supporto psicologico per aiutarli ad affrontare un percorso di questo tipo?

Sono fondamentali, è importante parlare con le famiglie e con il bambino per cercare di dare loro un’informazione corretta, ma nello stesso tempo una speranza di guarigione. Questo aspetto, il colloquio, diventa molto difficile quando la prognosi è infausta. Credo che il supporto psicologico sia auspicabile anche per tutti gli operatori sanitari che si occupano della cura di questi bambini perché l’impatto emotivo e il carico di responsabilità che implica il lavoro, nel corso degli anni possono logorare psicologicamente anche l’infermiere ed il medico più esperto.

© RIPRODUZIONE RISERVATA