Voci di Lombardia: la maestra dei matti

Inauguriamo una serie dello scrittore Mattia Conti che, con cadenza mensile, proporrà ritratti, sotto forma di racconto, di personaggi del popolo e famosi che hanno caratterizzato il nostro territorio

Como, Manicomio San Martino, 1885

Conobbi A. D. che era già pazza furiosa, eccome se lo sapeva, lo diceva lei stessa, io qui faccio la pazza. Credete Direttore, ci abbiamo provato in tutti i modi a farla rinsavire ma avete mai visto una mentecatta che si crede una regina e si lamenta di tutto, mai una parola grata, mai un sorriso? Chiedeva di voi, oh se lo chiedeva, e quante lettere per mettervi al corrente delle nostre negligenze. Che, come sapete, erano solo nella sua isterica mente.

A volte, in maggio, la sorprendevamo scendere dal padiglione degli agitati a piedi nudi e ferirsi le piante nelle sterpi. Lo faceva, diceva, perché solo le bestie sono lasciate scalze. Ben sapete che scarseggiano le scarpe e con la bella stagione ne abbiamo approfittato per un po’ di ergoterapia in giardino. Di cosa siamo colpevoli, dunque?

E le volte che si lamentava perché le davamo del “te”? Proprio noi che diamo sempre del lei a chi ci è superiore. Ma a una mentecatta che ci tira i capelli, che fa i peggiori dispetti alla Lampognani e alla Salvadei, a una che spreca tutta la carta in lettere e stende parole e parole a vuoto, è una colpa dare del “te”?

La normalità dei vermi nel cibo

E poi un continuo lagnarsi. In inverno per il ghiaccio nell’acqua, che spaccava arrossandosi le nocche. In estate per i pranzi. Col caldo, si sa, si generano un vermicello o due. Per questo vi ha scritto che le diamo un mangiare da “pitocco e da bestiame” e che quell’insalata “se dà ai vacc” e quella polenta “se dà ai pursei”. Ma siamo forse responsabili delle stagioni, noi?

Questo per dirvi, Direttore, che darle retta non porterà lontano, tanto che le mie povere collaboratrici si sono ritrovate il viso graffiato e certe etichette che la Madonna piangerebbe solo a udirle.

Ma andiamo con ordine. In data quattro luglio, A. D. è stata portata qui dal padre e dalla sorella in uno stato così pietoso che anche io, che a volte sento il cuore indurito, ho faticato a dormire la notte.

«Il destino di noi donne»

Per trasportarla, l’avevano dovuta fermare con le maniere brutte. Con le stesse maniere l’abbiamo chiusa subito nella cella degli agitati. Isterica, di certo, si contorceva, sbattendo la faccia a terra. Croste nere di sangue che neanche in un mese si sono staccate.

Che vuole, Direttore, noi che abbiamo un utero o figliamo, o ci rinchiudiamo in chiesa, o alla peggio diamo di testa. Beati voi che, se state alla larga dall’alcol e non vi beccate la pellagra, bene o male riuscite a restare centrati.

Comunque, la sorella ci comunica subito che la A.D. è maestra elementare e di buoni costumi, nonostante la povertà che tutti i famigliari portano sulla faccia. Pare sia impazzita tutt’a un tratto, mancando di rispetto al padre. Lui non le permetteva più di uscire, dopo che certi ceffi le avevano messo gli occhi addosso. Lei, un tempo così docile, gridava e bestemmiava.

L’avevano dovuta chiudere in camera sua, a due mandate perché quella, alle volte, spariva alla sera e tornava al mattino, non capitasse che restasse incinta di qualche vagabondo a trentatré anni suonati. Una vergogna per una maestra, che dovrebbe insegnare il santo e il bene. A quell’età, dico io, si dovrebbe essere ormai avviati alla vita. Ma questi tempi richiedono così tanti sforzi per vivere dritti.

La sorella mi ha mostrato dei lividi sul braccio, neri da far paura. Opera della A.D., mi ha spiegato, dopo aver scoperto che faceva la spia. E giù lagrime, la poverina, mi ha raccontato di aver provato in ogni modo a farla ragionare, ma niente. Se non l’avessero portata qui, i suoi genitori sarebbero morti di crepacuore.

Adesso ce l’ha su proprio con lei. Le scrive lunghe lettere in cui le recrimina la sua gelosia, parla dei due fratelli minori che vivono lontani, che secondo lei nemmeno sanno del suo ricovero. Ho inserito le lettere nella sua cartella clinica. Noi non le nascondiamo niente, Direttore, perché non c’è nulla da nascondere.

Ieri, che era Sant’Anna, l’abbiamo trovata con altre due agitate a lavare degli stracci nel Cosia. Le abbiamo fatte prendere dagli uomini e riportate a forza al padiglione, il buon Dio ci scampi dalle annegate!

Il pomeriggio, nel parco, si è messa addosso quei quattro cenci fradici e li ha stretti alla vita con due giri d’edera. Ha foderato la sua ciotola con uno straccio e se l’è schiacciata in testa, come un cappello. Ha usato della terra scura per bistrarsi gli occhi e poi si è seduta alla fontana, proprio all’ingresso, battendo le mani. Le altre mentecatte ci sono sfuggite e l’hanno raggiunta, traballanti.

Lei le ha fatte sedere e è partita con la sua lezione.

“Sono la maestra”, ha detto, e ha attaccato con il racconto dell’Impero Romano e delle sue conquiste, ha proseguito con la saggezza dei greci e raccontato come il Medioevo sia stato un pozzo nero.

“Come questo manicomio” ha concluso, “il nostro pozzo nero”.

Hanno applaudito tutte, qualcuna ha urlato. Abbiamo provato a chiudere quella pantomima. Una decina si sono ribellate alle colleghe e lei mi ha guardato con la faccia di chi ha vinto.

Per questo ora la trova legata per le braccia all’albero, in attesa delle sue istruzioni. Direttore, non possiamo lasciare che la follia vinca ancora sulla sua debole mente malata.

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