Basile: «Che gioia a Cantù, ma ora sono felice nel potare gli ulivi»

Intervista con l’indimenticato giocatore della Bennet. «Sono tornato a lavorare la campagna: da lassù, papà sarà fiero di me»

Il prossimo 24 gennaio soffierà su 49 candeline. Saranno più di 7 anni da quando ha smesso con il basket e quasi 12 da quando ha giocato la sua ultima partita con la Pallacanestro Cantù, allora targata Bennet. Ma di quel Gianluca Basile, per oltre un ventennio tra i simboli della pallacanestro, italiana non v’è più traccia. Riposta la palla a spicchi nell’ultimo anfratto del solaio, ha cambiato vita. Ora lavora la campagna, si occupa di cani randagi, gioca a padel e come luogo del cuore si divide tra i nove mesi sulla costa del mare siciliano di Capo d’Orlando e i tre (estivi) di quello sardo di Pittulongu. Uscite pubbliche, nel senso di ribalta nazionale, pressoché azzerate. Alquanto anomalo per il personaggio che è stato e per ciò che ha rappresentato per il basket italiano.

Gianluca, vuole un po’ raccontarci.

Mi piace stare in disparte. Anzi. vorrei starci anche di più, ma comprendo che non posso completamente ignorare social e contatti. Per rimanere al corrente e aggiornarmi il mio sogno sarebbe poter sbirciare dal buco della serratura ciò che succede, senza dover ricorrere ad altro.

Ma lei è Basile...

E infatti c’è anche qualche pazzo che mi chiama e che mi vuol intervistare per sapere come va e come la penso...

Non tutti si capacitano della scelta.

In effetti sento dire ogni tanto “ma che fine ha fatto quello lì?”. Nessuna fine, un nuovo inizio.

Con calma. Ha voglia, intanto, di andare a quella sua stagione canturina? Una sola, eppure lei ha lasciato il segno come se avesse giocato qui una vita.

Faccio una premessa e non è per tirarmela, ma credo di aver lasciato un bel segno e un buon ricordo in tutti i posti in cui ho giocato. I rapporti umani sono ciò che resta più a lungo e questo è bellissimo. Proprio nei giorni scorsi ero a Barcellona...

E che è successo?

Che quando l’hanno saputo mi hanno invitato ad assistere al derby spagnolo di Eurolega con il Real Madrid. Io manco sapevo fosse in programma... Mi ha fatto piacere e al contempo uno strano effetto vedere un mio ex compagno quale Grimau nei panni del coach, Sada tra i suoi vice e altri 3-4 di loro nei vari staff. Tutta gente rimasta nel giro. Ho avuto un tentennamento, ma subito dopo ogni tipo di rimpianto era già andato a farsi benedire. Sto bene così

Accennavamo dell’annata a Cantù, 2011-2012.

Mi sono divertito un sacco. Ho trovato compagni di alto livello e di intelligenza cestistica ben sopra la media. Con loro è stato facile giocare. La prima parte della stagione è stata spettacolare, mentre quella conclusiva compromessa, parlando di me stesso, da uno stiramento che non mi ha più permesso di esprimermi come avrei voluto.

Era reduce da una stagione al Barcellona nella quale non aveva praticamente mai giocato a causa di un paio di infortuni al piede. Poteva anche aspettarselo.

No, si trattava di due tipologie di infortuni completamente diversi. In carriera uno stiramento muscolare vero e proprio non l’avevo mai accusato e così la mancata esperienza in materia me l’ha fatto gestire male.

In quella squadra allenata da Andrea Trinchieri lei dava l’impressione di trovarsi a proprio agio.

Negli anni precedenti avevo sempre sofferto la pressione, mentre a Cantù ero arrivato finalmente con la consapevolezza dei miei mezzi. Senza più stress, mi sono davvero goduto il momento. Quanto al coach, si notavano subito la sua stoffa e la sua qualità. In effetti è poi decollato verso prestigiosi palcoscenici.

A proposito di allenatori, che giudizio dà di un suo amico quale Gianmarco Pozzecco, recentemente esonerato dal Villeurbanne, ma pur sempre ct della Nazionale azzurra?

Il “Poz” è un allenatore atipico, ma il rapporto che riesce a costruire con i giocatori è davvero unico. Proprio per questa sua capacità gli ho sempre consigliato di non prendere squadre in corsa, perché lui deve avere il tempo di tessere questo rapporto. Con giocatori che ha scelto direttamente, non che si è ritrovato in eredità. In Nazionale sin qui ha fatto benissimo, anche se è mancato il grande risultato. Ma non scordiamoci il significativo interesse che ha riscosso e l’entusiasmo che ha suscitato la squadra azzurra in questi anni con lui alla guida.

Torniamo a parlare di lei. Qual è ora la sua giornata tipo?

Sveglia massimo alle 7, porto fuori i miei due cani, accompagno mia figlia a scuola e poi vado in campagna. Lì il tipo di impegno dipende dalla stagione dell’anno. In questo momento mi occupo della potatura degli ulivi. Da qui a marzo l’obiettivo è di potare circa 500 piante.

È dunque proprietario terriero.

No, i terreni non sono miei, ma di alcuni conoscenti. Io ne ho in carico solo la gestione. Detto ciò, per me non si tratta di un hobby bensì di un’occupazione. Lo definirei un lavoro non retribuito. Ma la soddisfazione di recarmi al frantoio e vedere formarsi l’olio mi ripaga ampiamente.

È questa la felicità?

Di certo è la mia. Lo facevo da piccolo e da ragazzino con mio papà in Puglia ed essere tornato alla campagna, vale a dire là da dove ero partito, rappresenta un motivo d’orgoglio e mantiene vivo il ricordo di mio padre, scomparso qualche anno fa. Mi piace pensare che ora lui sia fiero di me. E questo mi fa star bene.

Proseguiamo con la giornata tipo.

Lasciata la campagna ho alcuni cani randagi da accudire, dopodiché tra le 14 e le 15 rientro a casa per il pranzo. La pennichella e nel tardo pomeriggio mi cimento con il padel.

Una cosa alla volta: i cani.

Mia moglie presiede un’associazione che se ne occupa. Non abbiamo un unico rifugio, ma alcune postazioni in terreni recintati che ci sono stati messi a disposizione in comodato gratuito. Personalmente gestisco una decina di animali e l’obiettivo è ovviamente quello di trovar loro una famiglia al più presto.

In qualche modo, senza offesa, si sente anche lei un po’ randagio?

Se per randagio l’accezione da intendersi è quella del sentirsi libero, allora direi di sì. Un senso, quello di potersi godere la libertà, che non ha prezzo.

Un randagio che ha sempre però creduto molto nel valore della famiglia.

È così tuttora, anche se due figlie ormai vivono fuori casa: Alessia, la maggiore, lavora a Milano, mentre Manuela studia fotografia a Catania. Resta Federica che frequenta il 4° anno del liceo artistico qui a Capo d’Orlando.

E cos’è questa novità del padel?

Un paio d’anni fa, con alcuni soci, avevo fatto un investimento (il Ba Padel Barcelona Golf, struttura con sette campi, ndr), pensando che bastasse mettere i quattrini e che poi le situazioni si gestissero da sé. Al contrario, ho imparato che occorre dedicare tempo e attenzioni e che serve sempre seguire le vicende. Avendo però fatto un’altra scelta di vita e desiderando mantenerla e continuarla, in questi giorni ho posto fine a tale esperienza.

Resta pur sempre un giocatore.

Sì, perché lo spirito di competizione che mi ha sempre contraddistinto da cestista e la capacità di prendere tutto seriamente mi sono rimaste attaccate e visto che a basket non posso più competere, ho trovato nel padel una valvola di sfogo. Lì do tutto me stesso. E poi, detto tra noi, avevo preso qualche chilo e non mi riconoscevo più... Il padel è lo sport ideale per recuperare un minimo di forma.

E la sua adorata passione per la pesca che fine ha fatto?

Ho accantonato un po’ quest’hobby perché il mare da queste parti non è molto pescoso se non in brevi periodi dell’anno.

E l’altro “suo” mare, quello della Sardegna, che frequenta da sempre?

Ci vado in estate, ma non soltanto per le ferie. Vicino a Olbia, infatti, mi occupo della gestione di alcune case vacanza.

Tipologia da top di gamma?

No, non sarei mai in grado di occuparmi di appartamenti di lusso... Non è nelle mie corde. Il target della clientela è medio. E io mi trovo più a mio agio.

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