«Cantù, ora si va in missione assieme.
E c’è da ricostruire»

Intervista con Roberto “Sam” Bianchi, strength & conditioning coach. «Devo ammetterlo: sono orgoglioso di essere tornato parte della famiglia»

A volte ritornano. Già. E lo fanno, come in questo caso, dopo aver lasciato nella precedente esperienza una significativa e chiara traccia di sè. Sia sotto l’aspetto professionale, sia sotto il profilo umano. Roberto “Sam” Bianchi era approdato alla prima squadra della Pallacanestro Cantù nel 2002 per poi mettere radici profonde sino al 2016. E ora, otto anni dopo - quando le primavera sulle spalle sono intanto diventate 64 (è un classe 1960) -, torna a riappropriarsi del proprio ruolo, quello di strength & conditioning coach del club biancoblù.

Anno 2002: lei in realtà debutta come assistente allenatore di Sacripanti.

È così e soltanto due anni dopo cambio “mestiere”. Pino mi vede lavorare con i giovani, e stiamo parlando della grammatica del sollevamento pesi, e mi chiede di dedicarmi in toto all’aspetto fisico-atletico della squadra di serie A. Accetto e ancora adesso ringrazio la famiglia Corrado e Bruno Arrigoni che hanno avuto fiducia in un perfetto sconosciuto. Dopodiché gli anni a guida Cremascoli hanno permesso di ampliare le basi anche grazie ai tanti viaggi negli Stati Uniti per apprendere e approfondire le nuove tecnologie. Straordinarie, professionalmente, le stagioni in Eurolega per quello che era ormai riconosciuto come il “Cantù lab”, apprezzato e guardato con ammirazione non solo in Italia ma pure all’estero.

Sulla bocca di tutti c’era il cosiddetto “spogliatoio B”.

Eravamo dei moschettieri, noi. Guai a dividerci, sempre insieme pronti a combattere pur supportati dalla spensieratezza che in tanti ci invidiavano.

Il suo addio a Cantù è datato 2016, con l’avvento a capo della società di Dmitry Gerasimenko.

Non riuscivo più a vivere in un ambiente così dove si continuava a cambiare allenatori e giocatori senza più riuscire a tessere rapporti umani. E ho detto stop.

Che ha fatto poi?

Ho collaborato con il Pgc ed è stato un onore e un piacere. Non finirò mai di ringraziare Antonio Munafò che mi ha preso nella sua famiglia e ora vorrei rappresentare un trait d’union tra il settore giovanile e la prima squadra.

Cosa l’ha convinta a tornare alla Pallacanestro Cantù?

La premessa è che non sono più riuscito a entrare in un palazzetto per seguire una partita di Cantù perché mi veniva il magone. La mia prima volta a Desio è stata proprio di recente in occasione del ritorno di Mazzarino. Lì ho rivisto anche Brienza che poco dopo avrebbe firmato. Mi ha chiamato il mio agente prospettandomi la possibilità di lavorare per Cantù. Ne ho parlato con mia moglie che è la mia vera bussola e in 12 secondi mi ha convinto. Così ho accettato.

Ha detto sì anche per una sorta di scommessa?

Preferirei utilizzare il termine missione. Non religiosa, sia chiaro, bensì militare.

Che tipo di lavoro pensa di impostare?

Fondamentale, innanzitutto, vedere prima i giocatori. La prima cosa sarà la valutazione della funzionalità. Cosa riescono a fare, intendo dire. Perché uno intende un giocatore professionista come una persona che scoppia di salute, mentre a volte si deve fare i conti con l’usura. Come fossero dei sedentari specialisti, bravissimi in tre cose, ma per niente stimolati a farne delle altre. Avanti poi con l’applicazione del cosiddetto “metodo Riva” che tanto ci ha dato in passato e che ancora adesso sarà uno dei nostri cardini. E poi lo sviluppo e il controllo della forza senza dar fastidio all’allenamento tecnico. Infine, il monitoraggio continuo dei carichi dell’allenamento.

Pensierino conclusivo?

Ammetto: sono orgoglioso di essere tornato parte della famiglia.

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