«Como, bello vederti lassù. Ora batti il nostro record»

L’ex presidente Gattei: «Il rimpianto? Eravamo vicini a Vialli e Mancini. Io ancora allo stadio? Solo se fanno l’ascensore»

La sala ristorante dell’Hotel Miralago a Cernobbio è cambiata. Più moderna, più fashion, più in linea con le esigenze turistiche di una Como in orbita. Ma quei commensali non sono cambiati. Da decenni, sono sempre lì, a quel tavolo. Il martedì sera. Un gruppo di amici, tra i quali i condottieri del Como più forte e nobile della storia. Benito Gattei, l’ex presidente, Eugenio Roncoroni, il suo vice, Aldo Lupi (che in società c’è stato poco, ma era sempre con loro, così come non si perde una partita allo stadio anche adesso), Mario Priante. Più altri amici che con il Como non c’entrano nulla. Ciacole in libertà. Su quella avventura indimenticabile. Con l’idea che il Calcio Como di oggi possa ripetere quelle gesta.

Siete sempre qui eh...

Gattei: Finché possiamo... Purtroppo qualcuno non c’è più. Renato Pozzi e Paolo Zerboni erano anche loro qui, a questo tavolo. E ci mancano tantissimo.

Visto cosa ha fatto il Como?

Gattei: Seguo seguo, eccome. Complimenti. Si vede lontano un miglio che è una bella società, solida. Faccio le mie congratulazioni a tutti. E un augurio: adesso però devono battere il nostro record di 5 anni in A di fila. Sarebbe bellissimo. Faccio il tifo per loro.

Non viene più allo stadio? Come mai?

Gattei: Non è che sia agilissimo, eh... Arrampicarmi sin lassù... Magari con il nuovo stadio faranno l’ascensore, e allora potrei tornare.

Roncoroni: Anche io le vedo tutte in tv. Non me ne perdo una. Poi non è che ci veda più benissimo. E non sono una grande esperto di calcio. Entrai nel Como per via di mio padre che era stato presidente, nel 1974. Ma non ho mai avuto ruoli tecnici. Non ci ho mai capito una mazza di tattica... (ride, ndr).

Lupi: per tanti anni la nostra è stata la fila 13. Adesso ci sono solo io. Mi piacerebbe averli ancora tutti vicino a me. Comincio a fare fatica anche io, a salire i gradini. Ma non mollo. Il Como è una malattia.

Cinque anni in serie A. La sensazione che il vostro Como sia stato “Il Como”.

Gattei: Eravamo un gruppo di amici. Una sinergia particolare. Quando andavamo a trattare dei giocatori, andavamo sempre almeno in due per evitare che uno facesse una pistolata. Ma non era controllo, era una condivisione.

Questo Como potrà eguagliarvi?

Io spero di sì. Ma fare paragoni è davvero impossibile. È cambiato tutto. Restano solo i ricordi.

Appunto.

Intanto abbiamo fatto la fortuna del Como, ma anche di Atalanta e Sampdoria...

In che senso, scusi?

Nel senso che se l’Atalanta è diventata quello che è oggi, lo deve a Mino Favini, il nostro vate del settore giovanile. Una volta il presidente dell’Atalanta, dopo una sconfitta con noi, chiese quale fosse il segreto del Como che stava sempre lassù. Gli dissero che uno dei segreti era lui. Gli fecero una corte spietata. E lo presero.

E la Samp?

Noi fummo molto vicini a Vialli e Mancini, questa è la verità. La Cremonese, per Vialli, avrebbe voluto metà cartellino di Borgonovo, e non accettammo, perché il quel momento Borgo era più quotato. Mancini invece lo seguimmo dalla primavera del Bologna e avevamo fatto un tentativo. Andato a vuoto. Così, quando entrammo in confidenza con Mantovani, presidente della Sampdoria, gli consigliammo di prendere Vialli e Mancini. Beh, fu un buon consiglio...

Voi con la Sampdoria avevate un bel rapporto.

Mantovani ci piaceva come persona, era uno corretto con cui si poteva parlare bene. Alla fine gli demmo Invernizzi, Galia, Matteoli, Mannini... Ma la più bella successe con Vierchowod.

Racconti...

L’Inter aveva fatto una proposta: 700 milioni, in due tranche da 350milioni in due anni. Ma poi al contratto aggiunse una clausola: se il giocatore non fosse andato bene, avremmo dovuto restituire i primi 350milioni e riprenderci il giocatore. Erano matti? Allora l’affare saltò. Ci contattò Mantovani, e nel viaggio di andata verso il colloquio, Pozzi mi disse, tra il serio e il faceto: chiediamo due miliardi. Mantovani sbiancò, e noi pensavamo ci mandasse a quel paese. Invece lui disse: almeno fate un piccolo sconto, facciamo almeno un miliardo e otto. Stavolta sbiancammo noi... E gli dicemmo, un po’ imbarazzati, ma per tenere il punto, che avremmo dovuto avvertire gli altri del consiglio, e che dovevamo fare una telefonata. Andammo al piano di sotto per far finta di cercare un telefono. Io e Pozzi ci guardammo straniti. Tornammo su dicendo che ci avevano dato l’ok, nonostante lo sconto concesso. Ma, ovviamente, non avevamo fatto nessuna telefonata...

Altre occasioni perse?

Zola. Ci chiesero 250mila lire. Ma Favini si mise di traverso perché, e aveva ragione, eravamo già ricchi di talenti in quel ruolo, Matteoli, Notaristefano, Didonè... Lasciammo perdere.

E gli allenatori?

Bianchi a un certo punto ci chiamò in ritiro, non avrebbe continuato a lavorare se non avessimo portato il contratto da firmare. Un po’ rigido, anche se oggi sarebbe la normalità. Allora bastava una stretta di mano. Ma a fine stagione ci ricordammo di quella cosa e cambiammo. Mondonico era troppo amico dei giocatori. Una volta, mentre ero in panchina, Mattei lo mandò a quel paese. Io rimasi di stucco. Poi mi spiegarono che c’era un clima di cameratismo tra i giocatori e il tecnico. A me non piaceva. Gli dissi che non lo avremmo confermato e lui tirò fuori la questione delle vipere. Marchesi e Burgnich furono i miei preferiti. Grandi allenatori e grandi uomini. Marchesi però dall’esperienza con la Juve tornò che non era più lo stesso. Agroppi, Clagluna e Valdinoci invece non furono brillanti.

A un certo punto lei si dimise.

Eravamo retrocessi in C. C’era insoddisfazione. In più i tifosi avevano fatto casino a Cesena allo spareggio, e io litigai con i capi tifosi e da lì mi contestarono. Un giorno andai allo stadio con mio figlio di 8 anni, e me ne dissero di tutti i colori. Lui in macchina mi guardò e mi disse: ma papà, sei il presidente e ti insultano? Perché stai lì? E così mi dimisi. La cessione? Fui vicino a cedere al famoso produttore cinematografico Bonivento, ma avrebbe comprato solo in B. Poi tornò Beretta e bussare e la storia si chiuse.

Quello con cui tutto era iniziato.

Entrammo in società che c’era molto frazionamento. Il gruppo Tragni, poi Beretta, Porro, Mastrangelo... Un giorno arriva Pozzi nel mio ufficio e dice: Tito, ho fatto i conti, abbiamo la maggioranza e non ce ne siamo neanche accorti! Chiesi a Beretta se voleva fare il presidente, ma non volle. E allora lo feci io.

Visto Marotta presidente dell’Inter?

Lo conobbi a Varese per una trattativa di un giocatore. Era bravo perché era uno costruttivo. Non mi sorprende sia arrivato lì.

E lo stadio?

Bella partita. Una volta arrivarono dei francesi che volevano fare un parcheggio sotto il Sinigaglia , fare un albergo sopra e spostare fuori città lo stadio. I discorsi sono sempre quelli. Vediamo come va a finire.

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