Il vecchio ricco che viveva da povero: Canto di Natale con delitto

Cold case Aveva case, terreni, contanti e titoli per miliardi di lire ma viveva tra le galline. Oggi il pubblico ministero rivela: «Venne da me un avvocato. Che forse sapeva qualcosa»

Anno nero, il 1993. Nerissimo. Da gennaio a dicembre in una provincia da poco dimezzata (la scissione di Lecco risale al 1987) si contarono tredici omicidi, primato orrendo e per fortuna ineguagliato.

L’ultimo di quei delitti coincide con un mistero rimasto da allora irrisolto, benché a lungo la Procura avesse sperato di venirne a capo sulla scorta di una impronta rinvenuta su uno scampolo del nastro adesivo che gli assassini avevano utilizzato per neutralizzare la vittima, un ricco “pusidéent” in piena efficienza fisica a dispetto dell’età (80 anni) e di un carattere parecchio ruvido.

Si chiamava Umberto Bernasconi, ed era conosciuto anche come il “Russet”. Fu trovato esanime la sera della vigilia di Natale ai piedi delle scale della sua villa di via per Gironico, a Montano Lucino, una gran casa in cui da poco stava abituandosi a vivere in solitudine dopo la morte della moglie, uccisa da un tumore neppure una quindicina di giorni prima che il destino si accanisse anche contro di lui.

L’assassino, o più probabilmente gli assassini, agirono nella notte a cavallo tra il 23 e il 24. I carabinieri lo trovarono con l’intero viso - bocca, naso e occhi - completamente avvolto nel nastro adesivo, il cranio inciso da una brutta ferita cui almeno all’inizio fu attribuita la causa del decesso. L’autopsia eseguita da Quintino Lunetta – l’allora primario dell’anatomia patologica del Sant’Anna, protagonista, suo malgrado, di tante indagini per omicidio – stabilì che in realtà la morte era sopravvenuta per asfissia e che il vecchio, con naso e bocca ostruiti dal nastro adesivo, aveva potuto resistere per 90, al massimo 120 secondi, prima di spegnersi rantolando sotto gli occhi dei suoi aguzzini.

Fiumi di denaro

Di Bernasconi, e della sua morte, all’epoca si scrisse parecchio, soprattutto in relazione alla distanza che intercorreva tra il suo modo di vivere - modestissimo, in una casa a tal punto spoglia da consentire alle galline di razzolarvi liberamente – e un patrimonio perfino difficile da quantificare: si parlò di circa un miliardo di lire tra contanti e titoli di credito (gli impiegati della sua banca lo ricordavano per le numerose operazioni da un centinaio di milioni alla volta, in tempi in cui le norme consentivano ancora di maneggiare allegramente fiumi di contante senza che nessuno si sognasse di segnalare le operazioni di cassa a chicchessia) e di svariati, ulteriori miliardi investiti tra terreni e immobili a Lurate, a Villa Guardia e in altri paesi della Bassa. Si scoprì che in passato aveva lavorato anche come muratore, poi come contadino, poi ancora come “spallone” di confine, e però zero precedenti, mai una denuncia, fedina penale linda come quella di una suora.

Ricorda quell’indagine l’allora pm Vittorio Nessi, all’epoca fresco di nomina alla Procura di Como. «I carabinieri mi avvertirono alla vigilia telefonandomi su uno dei primi cellulari in uso alla procura mentre seguivo la messa di mezzanotte a Sant’Orsola... Ricordo che durante la perquisizione della casa di Montano, il maggiore D’Elia, che all’epoca comandava il nucleo operativo dei carabinieri, infilò le mani in un mastello colmo di granaglie per le galline e vi scovò 27 milioni di lire in contanti».

Il denaro fu un po’ il filo rosso di tutta l’inchiesta: altre lire, assieme a decine di milioni in preziosi e monete d’oro, furono recuperate in una vecchia stufa in cui gli assassini non avevano fatto in tempo a mettere le mani, per non dire della cassaforte, che invece fu trovata aperta e ovviamente vuota. Sul suo contenuto girarono parecchie voci: la più accreditata riguardava una ricca collezione di lingotti d’oro, la cui esistenza però nessuno fu mai in grado di provare. L’ipotesi della rapina finita male non convinse mai del tutto. Anche perché altri due milioni di lire furono trovati in una tasca dei pantaloni che il Russet indossava al momento della morte. Sotto sequestro finirono comunque diversi registri e un ricco carteggio inerente svariate operazioni immobiliari. Il vecchio li teneva in soffitta.

Logica e chiacchiericcio di paese portarono Nessi e i suoi collaboratori a indagare anche negli ambienti del prestito a strozzo, ma purtroppo per ogni porta che si aprì ce ne fu sempre un’altra che si chiuse. Né bastò ricostruire i contorni di una aggressione che Bernasconi aveva subito in circostanze analoghe dieci anni prima, e che a quanto pare lo aveva indotto ad assumere una serie di precauzioni che avrebbero dovuto rendere la vita più difficile a chi di nuovo avesse voluto penetrare nella casa di via per Gironico. Era il 20 febbraio del 1983 e dalla legnaia - che gli habitué del tempo sapevano sempre aperta - erano entrati due banditi con le pistole in pugno e il volto coperto da un passamontagna. Uno dei due aveva puntato l’arma alla tempia del padrone di casa tentando di legarlo, mentre sua moglie aveva reagito afferrando un ferro da stiro prima di essere raggiunta da un violento colpo in testa. Dalla cassaforte era sparito un milione.

Negli anni successivi Bernasconi avrebbe confidato in più occasioni di sapere chi erano quei due banditi, promettendo che prima o poi ne avrebbe fatto i nomi. Ma non li fece mai. Quel precedente spinse comunque i carabinieri di D’Elia fin sulle tracce di una banda di delinquenti che nella prima metà degli anni Ottanta aveva furoreggiato nei boschi di Appiano e alla quale era stata attribuita anche l’uccisione di una impiegata nel corso di un rapina. Purtroppo, alla fine, anche quella porta si chiuse.

Furono verbalizzate alcune deposizioni, a partire da quella dell’infermiere che aveva assistito la moglie di Bernasconi, e che proprio il giorno della vigilia aveva tentato inutilmente di prendere contatti con il padrone di casa per farsi liquidare l’onorario. Siccome il telefono non smetteva di squillare a vuoto, l’infermiere aveva finito per prendere contatto con alcuni vicini che a loro volta, insospettiti, si erano rivolti a una nipote, tra i pochi parenti prossimi di Bernasconi, che non aveva figli. Raccontò proprio il vicino: «Insieme siamo entrati in giardino e abbiamo sbirciato attraverso le tapparelle della cucina. È stato da lì che abbiamo scorto due piedi immobili spuntare da dietro una parete». Nulla di strano nelle ore precedenti? «Macché. C’erano le luci accese e le tapparelle del piano di sopra abbassate a metà, ma lui sempre le teneva così... Aveva paura dal giorno di quella rapina, diceva sempre che se quei banditi fossero tornati non avrebbero trovato più nulla, ché la sua ricchezza non erano i soldi, ma la terra».

Due fantasmi in fuga

Un’ulteriore testimonianza i carabinieri raccolsero ascoltando la versione di un’operaia di un laboratorio a due passi dalla casa del delitto. Raccontò di avere visto due persone allontanarsi da via per Gironico pochi minuti prima delle sette del mattino di quella vigilia, furtivi come fantasmi di Natali passati (ricordate il racconto di Dickens? Quante somiglianze con questa storia) ma la segnalazione fu abbandonata dopo che il dottor Lunetta ebbe collocato l’orario della morte attorno alla mezzanotte.

Le speranze di venirne a capo si riaccesero a metà gennaio quando da oltre confine spuntarono i casi di due delitti ugualmente irrisolti, le cui vittime erano state uccise allo stesso modo, ricorrendo cioè alla stessa identica fasciatura letale perfezionata con quel nastro adesivo stretto su tutto il volto oltre che ai polsi, e al medesimo colpo in testa, inferto probabilmente con il calcio di una pistola. Così era stata ritrovata morta un’anziana signora di Lugano, tale Rita Pignamenta, uccisa il 30 novembre del 1992 nel corso di una rapina nella sua casa in riva al Ceresio; l’altro morto era invece tale Albert WaeYaert, cittadino belga, “cuccettista” di 34 anni, trovato esanime, e alla stessa maniera imbavagliato, a bordo di una carrozza di un treno diretto in Italia e fermo a Bellinzona, sul quale altri tre passeggeri, un italiano e due sudamericani, erano stati rapinati ma avevano portato a casa la pelle. Quella “firma”, quel modo strano di “impacchettare” con del nastro la faccia delle vittime, non si era mai riscontrato prima né mai sarebbe stata riscontrato nei mesi, negli anni a venire. «Purtroppo anche quella pista finì per esaurirsi - ricorda ancora Nessi - . Non riuscimmo mai a trovare tracce concrete, neppure tramite quell’unica impronta digitale rilevata sul nastro adesivo». Il magistrato però si convinse che gli assassini fossero del posto, e la ragione la rivela oggi, a trent’anni di distanza, raccontando di un incontro nel suo ufficio al quinto piano del palazzo di giustizia: «A qualche settimana dal delitto venne da me l’avvocato Dino Luzzani, che viveva lui pure in una grande proprietà a Montano Lucino. E quando feci cadere il discorso sull’omicidio Bernasconi, dalla sua reazione trassi l'impressione che qualcosa sapesse, che qualcuno del paese gli si fosse rivolto probabilmente per un consiglio. Non gli chiesi nulla più... Sapevo che avrebbe rispettato il segreto professionale».

Il sipario scese così, dopo quel faccia a faccia. Trent’anni più tardi, chiusa in qualche fascicolo negli archivi della Procura, quell’impronta aspetta ancora che qualcuno la associ al volto di un assassino che chissà, forse è ancora lì, in paese, in mezzo a noi.

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