Bassone, agente penitenziario licenziato: «Portava droga in carcere»

La sentenza Il Tar respinge il ricorso dell’ex dipendente: «L’uso di stupefacenti è certo». Era stato coinvolto in un’inchiesta dei carabinieri su un giro di hashish per i detenuti

Un assistente capo della polizia penitenziaria, in servizio al Bassone negli anni scorsi, è stato licenziato perché accusato di aver «introdotto e utilizzato personalmente in Istituto sostanze stupefacenti, di esserne consumatore abituale oltre che fornitore per altri colleghi». I giudici del Tribunale amministrativo hanno respinto il ricorso dell’uomo, quarant’anni di origini calabresi, il quale aveva cercato di farsi reintegrare in servizio dopo che la Procura di Como aveva archiviato l ’indagine a suo carico.

L’inchiesta

Una vicenda complessa, quella che l’ha visto coinvolto, che nasce nell’ormai lontano 2018 quando i carabinieri nel Nucleo operativo radiomobile di Como avevano avviato un’indagine sul «traffico di sostanze stupefacenti verso l’interno della Casa Circondariale di Como, con implicazione dei detenuti e di alcuni agenti di Polizia pentenziaria ritenuti corrotti ed infedeli». In realtà l’indagine, ancorché ha portato a diversi sequestri di hashish nascosti nelle scarpe che alcuni parenti di detenuti portavano dentro il carcere in occasione dei colloqui (sequestri scattati sulla base delle intercettazioni telefoniche in corso a quell’epoca), si è chiusa con un’archiviazione su richiesta della stessa Procura, ad eccezione di pochi indagati (non agenti) che hanno patteggiato in quanto presi con la droga.

In buona sostanza per il pubblico ministero non risultavano emersi elementi sufficienti per andare a processo.

Il procedimento disciplinare

Nonostante questo l’amministrazione penitenziaria ha deciso di licenziare l’assistente capo anche sulla base degli atti dell’indagine penale. Atti utilizzabili, hanno spiegato i giudici del Tar, anche nelle parti relative alle intercettazioni a carico dell’ex dipendente del Bassone. Il quale ha fatto ricorso al Tar, che però lo ha respinto.

«Dalle indagini - si legge nella sentenza - è emerso che l’Assistente capo era dedito al consumo di sostanza stupefacente anche sul lavoro; inoltre, frequentava e cedeva sostanza stupefacente ad altri appartenenti al Corpo, a loro volta consumatori abituali».

Agli atti del procedimento disciplinare vi sono poi gli «esiti di una perquisizione e la relazione del comandante» della stessa Polizia penitenziaria «secondo cui il ricorrente, quando era in servizio presso la casa circondariale di Como aveva introdotto e utilizzato personalmente in Istituto sostanze stupefacenti». Per i giudici «si tratta di “fatti” che, pur se all’attualità non ritenuti rilevanti in sede penale, non sono stati comunque sufficientemente sconfessati nella loro materialità». Senza contare che i «ripetuti contatti con persone dedite allo spaccio» mal si addicono per un uomo della Polizia penitenziaria, che è agente di polizia giudiziaria e che di conseguenza «è chiamato all’esterno a reprimere i traffici e all’interno a svolgere un compito non di semplice custodia ma anche di partecipazione alla rieducazione ed al recupero».

All’epoca, nel corso dell’indagine, i carabinieri avevano scoperto un giro non solo di droga, fatta entrare in carcere sicuramente attraverso il canale dei parenti di alcuni detenuti (con lo stratagemma dell’hashish nascosta dentro le scarpe destinate ai propri famigliari), ma anche di micro telefono cellulari usati da alcuni carcerati per comunicare con l’esterno e, anche, per fare ordini di stupefacenti.

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