Giornate scandite dallo scorrere della luce nel mio appartamento. Le ore hanno una forma nuova, sagomata dall’alternarsi delle ombre, dal mosaico dei notiziari, dalle riunioni in Skype, il doppio di quelle che facevamo dal vivo. E poi i pranzi in famiglia sostituiti dalle videochiamate, le occasioni per scrivere a quegli amici che si sentono solo per gli auguri di Natale, gli esercizi in salotto invece che in palestra. Strategie di resistenza che stiamo adottando, anticorpi per sopravvivere alla quarantene. Soluzioni per l’adesso e quella domanda insistente: cosa accadrà dopo? La partita è tutta giocata nello scarto tra l’ora e il poi.
La meccanica del virus è molto semplice. Mentre è inattivo viene chiamato virione: un manto proteico che protegge una lunga coda di materiale genetico. Resta inerte fino a che non entra in contatto con una cellula ospite, penetra nella sua membrana e le trasmette le sue informazioni, portandola a generare nuovi virioni che infettano altre cellule. Il risultato è la trasformazione dell’ambiente cellulare.
Su larga scala, assistiamo a quella stessa mutazione nelle nostre coscienze e nelle nostre vite.
Il primo effetto l’ho percepito nello sguardo. Se in un film vedo più di tre persone in una stanza provo un soffocante fastidio. Al supermercato allungo il percorso per non incrociare chi è senza mascherina. Se noto che qualcuno sta allungando la mano mi ritraggo d’istinto. Questa situazione ha cambiato la percezione della distanza, il senso di fisicità dei corpi. Ha spento la diatriba tra i soggetti “a rischio” – anziani con patologie pregresse - e la mia generazione che si sentiva invincibile, allargando a tutti il suo raggio d’azione. Ci ha ricordato che siamo fragili.
Ma cosa farne, di questa fragilità ritrovata? Come conviverci?
È difficile voltarsi indietro, a quando si faceva footing sul lago, le famiglie riempivano i parchi e si usciva il sabato per una pizza, e pensare che fosse solo un mese e mezzo fa. La sensazione è di assistere a un’epoca remota e felice, come quando si ricorda l’infanzia, scoprendoci un’ingenua leggerezza.
Quel senso di normalità, di noncuranza, è perduto, lo sappiamo, e difficilmente lo recupereremo. Purtroppo, o forse per fortuna. Immaginare l’apertura dei cancelli, delle piazze, gli abbracci ad amici e parenti dopo la quarantena mi fa pensare che ci sentiremo dei superstiti. Persone che hanno ricevuto indietro tutto ciò che non si erano mai accorti di avere già.
Così, questa reclusione, non ci obbliga soltanto a nuove abitudini ma ci pone la sfida di un’inversione di rotta. È una fase di crescita dolorosa, obbligata, che ci trae da un’infanzia arrogante per condurci verso una nuova consapevolezza: il mondo, fuori, sta cambiando.
Ritorneremo in una natura che ha vissuto piccole ma significative mutazioni. Pesci nei canali di Venezia, aria più pulita, delfini vicino alla riva in Sardegna, un lento restringersi del buco nell’ozono. Miracoli quotidiani di fronte ai quali non basterà rispondere con un sorriso di sorpresa. Si dovrà prendere atto che la Terra si riappropria dei suoi spazi quando riesce a debellare il suo virus, l’uomo. E che se vogliamo sopravvivere dobbiamo assecondarla, visto che tra le possibili cause della pandemia ci sono la distruzione di interi ecosistemi, livelli di inquinamento mai registrati, mobilità umana fuori controllo. Per scongiurare quarantene future dovremo essere pronti ad accettare nuovi limiti, restrizioni necessarie in un universo mutato dal virus. Come le cellule contaminate, dovremo cambiare il nostro dna attraverso una presa di coscienza collettiva, senza sconti.
Ad ora, mostriamo già i primi segni di alterazione: abbiamo risposto alla pandemia sviluppando un’inattesa resilienza. È accaduto l’impossibile e ci siamo fermati. Tutto quello che pretendevamo è diventato superfluo e stiamo imparando daccapo, come a scuola, quali siano i beni necessari. Non soltanto acqua, zucchero e farina ma abitudini, esigenze, legami. Scopriamo all’improvviso che essere umani significa vivere in società e ci ritroviamo a cantare da soli un inno sul balcone, sperando in altre voci. Ci adattiamo a percorrere duecento metri come fossero chilometri e ci riappropriamo del nostro tempo, scoprendo che ne avevamo bisogno.
I social hanno trovato la loro ragion d’essere proprio mentre affrontiamo un nemico che non si combatte a colpi di hashtag o flashmob. Per la prima volta siamo responsabili della vita degli altri, restare chiusi in casa è un atto di civiltà per proteggere il Paese. Questa eredità, la rivelazione che così possiamo sopravvivere, ci rende più forti. Irrobustisce il nostro senso di individui e anche quello di comunità, gli unici anticorpi che abbiamo per uscirne. Quando ce l’avremo fatta ne svilupperemo anche di nuovi: la consapevolezza di essere stati fortunati, così fragili e così forti, e un nuovo bisogno di proteggere ciò che abbiamo, accorgendoci che il mondo è sempre stato là fuori, ad attenderci come un dono.
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